Il primo Heidegger sosteneva che nella modernità si era spento lo splendore di Dio nella storia universale. Dio era ‘morto’, almeno nel senso che la fede nel Dio cristiano era divenuta incredibile per tanti in Occidente. Occidente è appunto Abendland, terra del declino e della sera. Sperimentiamo da decenni il declino del desiderio di conoscere e di ‘vedere’ Dio (quel desiderium naturale videndi Deum di cui dice la teologia) più che un esplicito antiteismo; nei molti prevale l’indifferenza piuttosto che la negazione frontale. Per questo Benedetto XVI ha proposto alla fine del 2009 l’apertura di un ‘cortile dei gentili’ “dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero”. Molti hanno ripreso questa felice intuizione, e proprio su Avvenire (3 febbraio 2011) Jürgen Moltmann ha invitato i credenti ad uscire dalle chiese ed andare nell’agorà, in modo che – come i preti operai entrarono nelle fabbriche – così gli studiosi e gli accademici vadano tra i còlti e condividano i loro dubbi.
Numerosi anni fa lo stesso Moltmann aveva osservato che il carattere pubblico del cristianesimo è divenuto problematico nella vita moderna, in cui né la religione né la tradizione sono più considerate necessarie per rendere possibile la società e la socialità: a questo fine è sufficiente, si dice, che gli uomini commercino e consumino. Di conseguenza molti elementi dell’esistenza sono ricondotti all’ambito privato, mentre la fondamentale destinazione sociale dell’uomo pare divenuta la realtà del lavoro e del loisir. Entro tale nuovo schema “la Chiesa cristiana è diventata proprio quello che non era mai stata, quello che secondo il Nuovo Testamento non avrebbe mai potuto essere: cultus privatus” (1).
Entro questo quadro presento tre riflessioni che danno spazio ai nuclei di ombra e di speranza, di cui fare memoria nel cortile dei gentili.
1) Partiamo dall’irreligione/indifferenza occidentale: a che punto siamo? L’atteggiamento giusto è di mantenersi aperti alla speranza e tenere incollato l’orecchio alla terra per decifrare il brusio di germinazioni invisibili. Esse dicono che, nonostante alcuni recenti ritorni d’esplicito antiteismo e di virulenta critica del cristianesimo, sviluppatisi in Europa da circa dieci anni, l’irreligione occidentale non è più così certa di se stessa. Che cosa intendo con questo nome? Nell’irreligione si esprimono un’empietà e un rifiuto della religione maggiori di quanto siano presenti nell’ateismo, poiché si allontana l’idea stessa di religione. La religione naturale cui aderivano i pensatori empiristi e la prima ondata dell’illuminismo si capovolge in irreligione naturale; l’uomo naturaliter religioso in uomo naturaliter irreligioso, mentre il sacro tramonta definitivamente. L’irreligione significa dunque questo: non solo Dio non esiste e se mai vi è stato non ha lasciato alcuna traccia di sé, ma – se anche vi fosse – non ci servirebbe in nulla nel cammino con cui procediamo a edificare le nostre vite; sarebbe anzi inutile e superfluo. L’irreligione si presenta come fredda indifferenza, convinzione che il sentimento dell’inesistenza di Dio sia quello più sano, persuasione che sentire la mancanza di Dio come mancanza sia un’idea storta. In questo quadro manifesta nuova lena l’ateismo a base positivistica e scientistica, che ripone fiducia solo nella scienza quale luce che dissipa le tenebre dell’errore. Lo scientismo tecnologico si preoccupa più di produrre l’uomo che di combattere Dio: la sua scomparsa seguirà inevitabilmente con l’avvento dell’irreligione. Il perno epistemologico di questa operazione è il postulato di chiusura dell’universo fisico, secondo cui ogni evento fisico che ha una causa, ha una causa esclusivamente fisica (2).
Ma l’irreligione non è più così certa di se stessa. Sta sperimentando il dubbio e si pone degli interrogativi in specie in rapporto al futuro dell’uomo: possiamo produrre l’uomo con le biotecnologie? fare l’uomo così come ve ne è bisogno, produrlo come serve, applicando una sorta di fondamentalismo del mercato e dell’utile alla antropogenesi? Queste domande riproposte da tanti mostrano la necessità di aprire uno specifico ‘atrio dei gentili’ indirizzato agli scienziati ed ai tecnologi che sino a poco fa erano in qualche modo fautori dell’irreligione europea, ma che lentamente si trovano nella loro coscienza confrontati con la domanda se riprendere in mano con la questione dell’uomo anche quella di Dio. Se così accadrà, i credenti potranno favorire un dialogo centrato su una fondamentale contraddizione che insidia tutti: da un lato la micidiale miscela di hybris e sentimento d’onnipotenza che vuole trasformare l’uomo in creatore di se stesso, e dall’altro l’estrema fragilità spirituale e psicologica di tanti contemporanei. Essi sono avvolti in un velo narcisistico che assolutizza ogni loro desiderio, ma che pone un’insuperabile barriera verso gli altri. E’ come se ciascuno s’intendesse come un’isola e dicesse ad ogni altro: noli me tangere, ma poi si scoprisse disperatamente solo e illuso nei suoi sentimenti d’onnipotenza. In quest’atrio dei gentili ci si accorge che problema di Dio e problema dell’uomo vanno insieme, e che come Paolo ad Atene bisogna nuovamente annunciare il Dio ignoto nel grande areopago planetario.
Comunque non occorre intonare un ennesimo de profundis per le ideologie atee che hanno ammorbato l’Europa, sostenendo che avevamo ragione noi credenti. Sì, in realtà avevamo ragione, ma non siamo stati in grado di evitare la catastrofe. Continuare ad elencare gli errori di un marxismo morto e sepolto, è un esercizio secondario, poiché un’esperienza disastrosa che ha bruciato le nostre carni non può essere ripetuta dopo un piccolo intervallo. Quanto adesso conta è di guardare all’oggi e ai suoi problemi con un atteggiamento simile a quello di Giustino e Clemente alessandrino: cogliere i semi del Verbo nella cultura contemporanea e percepirne in movimenti intimi mettendo in campo una psicologia del profondo.
2) In secondo luogo colpisce il crescente sentimento antieroico dell’esistenza, che affonda le proprie radici in un antieroismo antropologico. L’analisi esistenziale suggerisce di riprendere a coltivare l’eroismo nel momento in cui l’uomo occidentale affonda nella piccolezza antieroica. Siamo poveri di passione per la verità e di speranza, e questo ci conduce al tramonto, anche demografico: il domani ci fa paura, non osiamo più, siamo bloccati nel dare la vita e se attendiamo qualcosa ci rivolgiamo alla scienza, pur intuendo che vi è bisogno di una sapienza più alta di quella che può venire dalla scienza.
E’ difficile evangelizzare un uomo intimamente fiaccato, il cui cuore si accontenta di desideri banali. L’uomo contemporaneo non può ridiventare credente se rifiuta l’eroismo. L’umanesimo antropocentrico ci ha reso sterili. Secoli fa iniziò l’avventura di tale umanesimo, che di crescendo in crescendo partorì il suo più alto sogno: concepì l'uomo come un essere divino (ma senza Dio), e pensò Dio come un mito in cui l'uomo si alienava, gettando in esso e perdendovi la sua grandezza, sino a quando un Prometeo non l'avesse risvegliato. Oggi l’antropocentrismo è meno sicuro di sé, ma non è finito. Esso ridimensiona realisticamente le sue speranze; si occupa del nesso scienza-politica-economia-etica, cercando di organizzare attorno ad esse il mondo umano. Esso dunque si ricentra, ma senza rinunciare a imperniarsi sul singolo, che diventa l’unica unità di senso. Per non dire di altre più radicali correnti dove l’antropocentrismo si capovolge nel suo contrario, nel vangelo nichilistico della "morte dell'uomo" (Foucault) in cui si riconosce un esito coerente della cosiddetta "morte di Dio" (Nietzsche). Un annuncio non può andare senza l'altro: la fine dell'esemplare comporta di necessità quella dell'immagine. Senza Dio l'uomo può organizzare la terra, ma finirà per organizzarla contro l'uomo.
Il ricentramento antropologico in atto si impernia su una concezione antieroica dell'esistenza, che produce un io minimo nel quale l’autodisciplina del carattere, consistente nel restare saldo nell’anima, al di sopra del benessere e aperti all’avventura dello spirito, si indebolisce assai. L'uomo antieroico è l'uomo prosaico, che rinuncia al rischio e alla lotta, a scommettere sul domani, non accettando di esporsi alla sconfitta, ma estenuandosi nel divertissement del futile e del secondario. L'io antieroico passa scivolando sulle possibilità estreme dell'esistenza, nelle situazioni-limite, troppo impegnative e segnate dalla possibilità del tragico. Se le considerasse con serietà, sarebbe costretto ad abbandonare il suo io minimo, quell' esprit de petitesse in cui risiede la sua soddisfazione di "io comico". D'altra parte un elemento antieroico sembra inerente al modo con cui viene da tempo intesa la democrazia. Secondo A. Yehoshua "con la democrazia moderna la passione per gli eroi è in declino. La democrazia infatti non crede negli eroi e diffida di loro". La democrazia livella e poco apprezza l’eroismo del quotidiano.
L’evangelizzazione dell’Occidente deve puntare su un nuovo eroismo, che riemerga contro il generale sentimento antieroico della vita e il facilismo del benessere: ripresa che è possibile dove umano e divino si danno la mano. Tale è l’umanesimo teocentrico, dove Dio e uomo cooperano a produrre un'opera divinamente umana, segnata dall'eroismo dell'amore e delle virtù, che dà la massima prova di se stesso nel caso estremo del martirio. Qui sotto la contraria species del fallimento e della sconfitta vengono in realtà decisi gli eventi della storia: "si vedrà che soltanto il martire è in grado di governare il mondo nel momento decisivo" (Kierkegaard). In certo modo anche l’umanesimo ateo, sebbene segnato da una deviazione catastrofica capace di distruggere tutto, fu eroico a modo suo: organizzare la terra senza o contro Dio richiede un'inflessibile tensione della volontà e della mente, perché le tracce di Dio si presentano ovunque e non sarà mai finita la lotta per cancellarle. Ma questo eroismo è finito da tempo, ha distrutto se stesso, quasi disseccando ogni altra sorgente. Rievangelizzare l’Occidente implica che vengano nuovamente scoperti l’eroismo della vita cristiana e l’esperienza della santità.
3) In terzo luogo è inderogabile porre la domanda se e come la filosofia, quale specchio in cui si riflette la cultura dei popoli (Fides et ratio), possa valere come praeparatio evangelica. A tale questione che chiede se la filosofia possa rappresentare in generale un’area di conoscenza che predispone all’ascolto aperto, amichevole, non pregiudicato dell’annuncio cristiano, l’enciclica FR assegna risposta positiva, fondandosi sull’esperienza dei primi secoli cristiani e facendo riferimento in specie a san Giustino e a Clemente Alessandrino (cfr. n. 38). Alla più specifica questione se in particolare possiamo pensare nell’orizzonte della praeparatio evangelica la filosofia postmoderna, la FR non suggerisce una risposta, anzi la questione non è sollevata. In effetti la formulazione stessa della domanda può suscitare stupore. Si obietta: non è dal pensiero moderno e contemporaneo, tanto influente su quello postmoderno, che sono venute radicali contestazioni al cristianesimo, a Dio, al Cristo? Non ha esso voluto porsi in numerose sue espressioni come ateo e antiteista? E non è oggi tale pensiero non di rado incamminato verso il nichilismo o almeno a costeggiarlo? Vari indizi militano a favore di una risposta affermativa a queste domande.
D’altra parte il filosofo non prepara ordini del giorno per il futuro: gli basta portare la fatica del concetto. Sarà già un buon passo il determinare che cosa si intenda per praeparatio evangelica. Ricorrendo a questo termine, si impiega un concetto antico, a cui ha fatto ricorso Clemente Alessandrino, intendendo la filosofia greca come strada e cammino per venire preparati a ricevere il Vangelo: qualcosa di analogo si riscontra in Agostino in rapporto alla filosofia platonica (cfr. De civitate Dei). Per Clemente il “Testamento” ad uso dei Gentili fu la filosofia: essa giustificava i Greci, i quali secondo l’autore in qualche modo intravedevano le due verità fondamentali su Dio creatore e remuneratore. Non è superfluo aggiungere che a questa tesi si contrapponeva allora quella degli gnostici e dei marcioniti, che intendevano la filosofia come sapienza diabolica data dagli angeli decaduti agli uomini: la filosofia o la conoscenza come frutto del serpente (3).
Nella filosofia che prepara il cammino all’annuncio del Vangelo si può forse individuare un equivalente naturale del compito di Giovanni Battista che preparò la strada al Verbo: chi appronta la strada, fa in modo che i principali ostacoli siano rimossi e che il cammino non sia tortuoso. L’idea di Clemente può risultare anche oggi valida, a patto di saper individuare la forma più urgente di preparazione evangelica che la filosofia può offrire. Se mi interrogo in proposito, intravedo che tale preparazione dovrebbe includere la riconquista del senso della verità e di Dio, e la capacità di sgomberare il terreno dai principali ostacoli, fra cui appunto il nichilismo, col quale è andata in frantumi non solo l’idea che la filosofia potesse valere come praeparatio evangelica, ma è entrato in una zona d’ombra un altro compito “tradizionale”: quello secondo cui il filosofare vale come cura e medicina dell’anima.
Rispetto all’orizzonte di Clemente, che considerava il mondo antico prima della venuta di Cristo, viviamo in una condizione diversa, poiché il Vangelo è stato annunziato. Il tema della preparazione evangelica da parte della filosofia non può perciò venire inteso in senso sostitutivo e surrogatorio di qualcosa che ancora non c’è, ma in modo cooperante e aprente: preparare il cammino, non ponendo ostacoli all’accoglienza di qualcosa che già si è manifestato. Ciò in modo più determinato significa per la filosofia: non adulterare il senso della verità e del bene, e operare perché con le assise naturali della mente e del volere il soggetto sia indirizzato verso tale senso.
Nel cercare di intendere come la filosofia possa svolgere un compito di preparazione evangelica, vari cammini e diverse metodologie si prestano allo scopo. La strada che percorreremo adotta un metodo narrativo che racchiude peraltro potenzialità filosofiche. Si volge a figure del passato, ritenendo che dal loro esempio possa venire un’ispirazione permanente per intendere la preparazione evangelica e la cooperazione fra fede e ragione. Ci indirizzeremo in specie a quelle persone capaci di incarnare filosofia e fede nella loro forma più pura e tipica, chiedendo: chi è/chi sono i rappresentanti della filosofia ? chi è/chi sono i rappresentanti della fede ? Convocheremo dinanzi allo sguardo della mente cinque figure: Socrate, Gesù, Pilato, Abramo, Odisseo/Ulisse, osservandoli nel loro agire.
Socrate e Gesù. In Socrate si è sempre riconosciuto il rappresentante e in certo modo il padre della filosofia, degno di quell’amore che il giovane Platone maturò in se stesso e gli serbò per tutta la vita, nella nostalgia dello stupore che un giorno lo sorprese nell’incontro con lui. Anche Nietzsche - pur tanto avverso al grande occhio ciclopico di Socrate a cui imputava la dissoluzione della tragedia greca, e la nascita con la filosofia di uno sconsiderato ottimismo teoretico - ne riconosce l’eccezionale rilievo (cfr. La nascita della tragedia). In Gesù abita la Parola eterna incarnata, o comunque una personalità d’eccezione, un grande maestro di morale, come Kant riconosceva. Se osserviamo attentamente i due personaggi, per non pochi aspetti simili, qualcosa ci colpisce e sollecita la nostra meditazione. Socrate interroga, Cristo è interrogato. L’Ateniese si aggira per la piazza pubblica, l’agorà, ponendo domande e infastidendo non di rado i suoi interlocutori, a cui appariva come un tafano importuno. Egli chiede: che cosa è la giustizia ? che cosa il bene ? e la felicità ? Da queste domande e da quelle dei filosofi ionici precedenti è nata la filosofia. Socrate interroga. Gesù invece è interrogato lungo le strade della Galilea e della Giudea: è interrogato dagli scribi e dai farisei, dal giovane ricco, dal popolo, da sua madre, da Pilato, dal sommo sacerdote, dagli apostoli, dai discepoli. è interrogato perché, rispondendo, renda testimonianza alla verità.
Socrate non è la verità, perciò interroga: domanda per sapere ed anche per correggere nel dialogo critico le opinioni infondate. In Cristo gli interlocutori avvertono qualcosa di grande e di misterioso, forse la verità stessa, perciò egli è interrogato. Chi interroga, non sa, ma cerca. Chi è interrogato, sa, ed è interrogato su quanto sa. Ciò pone una diversità fra i due personaggi, che è la differenza tra la filosofia e il divino. La filosofia cerca Dio, ma non è divina: essa non sa, ma cerca di sapere; si tende tutta e si affatica nello sforzo della ricerca; raramente raggiunge una condizione di quiete. Un’altra differenza emerge dal diverso carattere dell’interrogazione: Socrate eleva domande allo scopo di raggiungere la verità sulle essenze etiche. Cristo è ultimamente interrogato in ordine a lui stesso: chi sei tu? gli si chiede. Insieme gli si domanda: che cosa è la verità?
Gesù e Pilato. Questione sulla identità di Gesù e questione della verità si congiungono e si fondono. Quest’ultima fu la domanda di Pilato durante il processo a Gesù. Egli chiede: “che cosa è la verità ?” (quid est veritas ?), ma non attende la risposta. Aveva troppa fretta. Fretta di chiudere il caso in qualche modo, di non scontentare troppo le parti che gli stavano a cuore, di cui desiderava garantirsi l’appoggio. Forse è il prototipo di tanti personaggi importanti, che hanno sempre qualcosa di urgente che li attende e niente di essenziale da fare. Pilato è distratto e perciò non aspetta la risposta : si rivolge alla folla chiedendo : che cosa volete che io faccia di lui ? Egli domanda, non però in ordine alla verità. La verità non risponde ai frettolosi ed ai disattenti (4). Se un insegnamento si diparte dal dialogo tra Gesù e Pilato, è l’invito alla quiete e alla calma: reiterare la domanda e attendere con pazienza e perseveranza la risposta. Socrate da parte sua domanda senza stancarsi, in modo non finto. Non ha fretta. Forse è un contemplativo, anzi lo è, come è attestato dall’episodio di Potidea durante una campagna militare, quando rimase fisso in ininterrotta meditazione per un giorno intero ed un’intera notte, sollevando la meraviglia di compagni e militi (cfr. Simposio, 220 c ss).
Che cosa dobbiamo pensare di Gesù, di Socrate, di Pilato ? Gesù, interrogato sulla sua divinità, sta oltre la filosofia e la fede. Socrate ci appare il rappresentante della filosofia; Pilato si presta a più di un’ interpretazione: è l’autorità infedele al suo compito; forse è il curioso che pone domande distratte, in modo ben diverso da Socrate. Se abbiamo trovato il rappresentante della filosofia, non c’è ancora venuto incontro quello della fede, che non può essere né Pilato, né il Verbo Incarnato. Non avendo ancora convocato Abramo, il dialogo tra filosofia e fede non può svilupparsi. Abramo è il padre di tutti i credenti ; egli credette contro ogni speranza (spes contra spem). “Abramo credette, perciò egli è giovane; poiché colui che spera sempre la cosa migliore, costui invecchia perché deluso dalla vita; chi si tiene sempre pronto al peggio, costui invecchia precocemente; ma colui che crede, conserva un’eterna giovinezza”, scrisse Kierkegaard in Timore e tremore.
Socrate e Abramo. La nostra “messa in scena” potrebbe concludersi a questo punto, ossia con la determinazione del rappresentante della filosofia e del cavaliere della fede. Uno scrupolo di lealtà e di aderenza agli eventi ci invita tuttavia a non fermarci a questo esito pur significativo, domandando a nostra volta se non si ritrovino in Socrate padre della filosofia e in Abramo padre dei credenti e cavaliere della fede atteggiamenti fondamentali analoghi che, avvicinando le due figure, avvicino pure filosofia e fede.
Qualcosa di notevole, capace di stabilire una segreta affinità fra i due personaggi, ci sorprende nel comportamento di Socrate e in quello di Abramo, ed è l’obbedienza ad una voce che a loro viene rivolta, e dal cui ascolto nascono esiti diversissimi. Per obbedire alla voce della coscienza e non disobbedire alle leggi della polis, Socrate rimane nel carcere di Atene, bevendo la cicuta e affrontando la morte. Per obbedire alla voce di Dio, Abramo esce dalla sua terra natale e va. L’uno rimane, l’altro va: l’uno resta nel carcere, l’altro esce dal suo paese. L’uno va incontro alla morte, l’altro all’ignoto.
Entrambi lasciarono indietro una cosa e presero con sé una cosa. Socrate lasciò indietro il desiderio di continuare a vivere, e prese con sé la speranza nell’immortalità e quella di poter perseverare a filosofare nell’Ade. Abramo, accingendosi a sacrificare Isacco, lasciò indietro le misure terrene del senso comune e prese con sé la fede: fede pura e assoluta, poiché nessuna richiesta del genere, nessun sacrificio di Isacco, sono indirizzati a Socrate. Ma entrambi sono uniti dall’aver ascoltato una voce che parlava in loro e dall’averle obbedito. E’ la voce che chiama e parla in ogni uomo. Né Socrate, né Abramo hanno criticato, respinto, svuotato l’appello loro rivolto: nella sottomissione hanno cercato di comprendere, lontani dall’orgoglio di un pensiero autocentrato, che allontana da sé ciò che non calza con le sue misure.
In atti culminanti della loro esistenza il rappresentante della filosofia e il cavaliere della fede hanno ritenuto che non fosse possibile sottrarsi all’obbedienza ad una voce. Essi hanno ascoltato e obbedito. Anche la filosofia postmoderna, pur segnata da svolte scettiche e tentazioni formalistiche, potrà valere come praeparatio evangelica se ritroverà un contatto con la testimonianza di Socrate, mettendosi in ascolto della sua lezione, senza chiudere gli occhi su quella di Abramo. Ritrovare un contatto può qui significare due cose: non interrompere troppo presto e a buon mercato la ricerca, ossia non accontentarsi come non si accontentava facilmente Socrate nel dialogo per la verità; non perdere di vista che Socrate allontana da sé l’accusa di ateismo, sollevatagli contro da Meleto ed altri. Il padre della filosofia non è ateo: “Ma ecco che è l’ora di andare : io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio, è oscuro a tutti fuori che a Dio” (Apologia di Socrate, trad. Manara Valgimigli). Egli intuiva che essere nel senso più alto è essere per sempre.
Se forse Socrate, come riteneva Kierkegaard (cfr. La malattia mortale), sta più in alto della filosofia moderna, non si dovrebbe aggiungere che Abramo sta più in alto di Socrate ? Sta più in alto non secondo una graduatoria di valore ma di elezione, poiché Abramo intuì qualcosa del mistero della Croce. A Socrate fu chiesto di accettare l’ingiusta condanna a morte, eseguita dalla città; ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio. A chi fu domandato di più ? A quello a cui fu domandato di più e fu richiesta una speranza più grande, questi ha un presentimento della Croce. In essa (e nell’Incarnazione) sta il vertice della Rivelazione, la quale avviene “con eventi e parole intimamente connessi” (Dei Verbum, n. 2). Socrate e Abramo sono grandi e con profonde analogie nella loro grandezza: ma sta fra loro conficcata quella Croce, di cui Abramo ebbe oscura conoscenza obbedendo alla richiesta di sacrificare Isacco. Quella Croce che nessuna struttura dialettica, nessuna argomentazione razionale possono dissolvere, perché sta oltre l’umano e la filosofia.
Odisseo/Ulisse. Forse non è ancora terminato il nostro cammino, poiché oltre Gesù e Pilato, oltre Socrate e Abramo, ci interpella la figura di Odisseo/Ulisse. Essa una volta ancora ci indirizza verso Abramo. Entrambi viaggiano e affrontano l’ignoto, ma per diversi fini. Abramo per uscire dal suo paese natale, Ulisse per ritornarvi, per dimorare di nuovo nel luogo che è origo e fons di ogni bene e degli affetti familiari. Abramo è spinto dalla chiamata di Dio, l’Ulisse dantesco dal desiderio di “virtute e conoscenza”: vi è in lui un intenso ardore di sapere, capace di sfidare la morte e che dà testimonianza al naturale desiderio di conoscere. Anche egli come Socrate è un’immagine della filosofia, che sempre deve tornare al proprio principio, e che per ottenere ciò è obbligata a compiere un rischioso viaggio. Condotto dal desiderio di sapere, non da vana curiositas, a varcare le colonne d’Ercole, Ulisse non ha nulla dell’Ubermensch. E’ l’uomo che cerca; è la filosofia senza la fede, che con forza e nobiltà rischia ma che ultimamente non riesce da sola a varcare quelle colonne. Che cosa trasmette la sua figura ? Nel rispondere vorremmo distaccarci da Lévinas, per il quale l’elemento dubbio del greco Odisseo starebbe nel desiderio di ritornare al punto di partenza, all’origine. Il filosofo lituano intese tale atteggiamento come paradigma di una soggettività isolata, chiusa, autocentrata, identica a se stessa, forse indifferente al volto dell'altro.
Un’altra interpretazione pare possibile. Tanto Abramo, uscendo dalla sua terra, quanto Odisseo tentando di tornarvi, rischiarono per la verità. Poiché nessuna parola uscita dalla bocca di Dio venne rivolta ad Odisseo, egli dovette muoversi stando sulle proprie gambe e decidere contando sulle sue forze, nell’ascolto dell’eterna voce della natura e degli affetti che imperiosamente suggeriva un ritorno verso il paese natale nel superamento di molteplici insidie. Egli rischiò da solo per la verità dell’origine: vinse e perse. Vinse mantenendo alto il desiderio di conoscenza e tornando ad Itaca; perse invece la sfida nei confronti dell’ignoto. Forse questo è il destino della filosofia: poter con le proprie gambe percorrere un tratto di cammino, mai tutto; conoscere qualcosa, ed ignorare qualcos’altro. Per compiere più ampio tratto essa deve stringere alleanza, unendo alla propria energia conoscitiva quella che promana dalla Rivelazione. Non sappiamo quanto e come ciò accadrà nel postmoderno: ma che almeno la filosofia cammini con le proprie gambe e calpesti il solido terreno dell’essere! Questa è la condizione delle condizioni e prende vari nomi: realismo, senso dell’essere, intuizione intellettuale dell’essere, ecc. Una filosofia incamminata in questa direzione è per sua natura aperta al trascendente, pensa l’uomo come strutturalmente disposto all’ascolto di una possibile Rivelazione, supera il criterio di immanenza con le sue strettoie finitistiche., dispone ad entrare ed oltrepassare il cortile dei gentili.
A questo punto si aprirebbe la delicata questione di quali e quante siano le filosofie attuali che rispettano le condizioni suddette. Se lo stupore dinanzi all’esistenza è genuino, la filosofia è sul terreno giusto per incontrare lo stupore infinito dell’Incarnazione, del Dio-uomo. Su questa soglia si conclude la praeparatio evangelica, e inizia l’ itinerarium personae in Trinitatem.
Vittorio Possenti
Note
(1) Prospettive della teologia, Queriniana, Brescia 1973, p. 253.
(2) Il termine postulato è perfettamente appropriato, perché si chiede, talvolta con arroganza, di concederne la validità momentaneamente. Ben diversa cosa è il principio, in cui si esprime una verità innegabile, tale che la sua negazione può essere ridotta alla contraddizione. Su questi aspetti cfr. il mio “Caso evoluzione finalità”, in AA. VV., Natura umana, evoluzione ed etica, Guerini, Milano 2007, pp. 75-107.
(3)“Prima della venuta del Signore, la filosofia era necessaria per la giustificazione dei greci; ora, è utile per condurre le anime a Dio, giacché è una propedeutica per coloro che arrivano alla fede attraverso la dimostrazione... Dio infatti è la causa di tutte le cose belle, ma di talune in maniera principale, come dell’Antico e del Nuovo Testamento, delle altre secondariamente, come della filosofia. E forse questa è stata donata principalmente ai greci prima che il Signore chiamasse anch’essi : giacché essa conduceva i greci verso il Cristo come fa la Legge per gli ebrei. Ora la filosofia resta una preparazione che mette sulla via giusta colui che è perfezionato dal Cristo stesso” (Clemente, Stromata, 1, 5, 28). Occorre aggiungere che per Clemente i greci hanno appreso molte dottrine dai profeti dell’ebraismo.
(4) La domanda di Pilato - che cosa è la verità ? - non venne posta male o impropriamente : era la domanda. E Gesù risponde silenziosamente indicando in se stesso la Verità. L’anagramma di quid est veritas suona infatti est vir qui adest.
La Società, n. 2, 2011, pp. 228-241.