Vittorio Possenti

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Conoscenza di Dio ed esperienza mistica

1. La questione della mistica e il peso del razionalismo moderno. I mistici cristiani viventi nell’epoca moderna non sono stati inferiori a quelli fioriti in epoca medievale. Nonostante questa considerazione, non è facile allontanare il sospetto che la cultura e la teologia cristiane, tinte in vario modo di razionalismo o subendone la pressione, non abbiano fatto dall’epoca del Concilio di Trento il dovuto spazio alla mistica e ne abbiano lasciato in sordina il problema per un lungo periodo. Naturalmente esistono non secondarie eccezioni, quale il fiorire di studi a partire dagli anni 20 del secolo scorso sin verso la fine della seconda guerra mondiale, ma sembrano appunto eccezioni più che la regola. In quel periodo Pio XI pose san Giovanni della Croce tra i Dottori della Chiesa universale (1926), qualche anno prima vengono fondate in Francia “La Vie spirituelle”, la “Revue d’ascétique et de mystique”, e intorno al 1930 gli “Etudes Carmélitaines”. Nel 1927 Ambroise Gardeil pubblica La structure de l’âme et l’expérience mystique, e Réginald Garrigou-Lagrange nel 1923 Perfezione cristiana e contemplazione secondo san Tommaso d’Aquino e san Giovanni della Croce e nel 1929 L’amore di Dio e la Croce di Gesù. Nel 1932 Jacques Maritain dà alle stampe Distinguere per unire. I gradi del sapere, con fondamentali capitoli sull’esperienza mistica.

Seguirono le ricerche di Louis Massignon sulla mistica musulmana e nel 1937 gli Etudes sur la psicologie des mystiques (2 voll.) di Joseph Maréchal, gesuita. Nel 1930 nasce a Firenze la rivista “Vita cristiana” che nel 1975 muta il nome in “Rivista di Ascetica e Mistica”. Prima e dopo il Concilio Vaticano II la situazione è rimasta in genere abbastanza statica e il Concilio stesso, che certo aveva altri intenti, non ha toccato il tema.

La grande insistenza della Chiesa e della teologia moderne su quanto era considerato strettamente necessario alla vita cristiana e alla salvezza, in particolare l’elemento etico e i doveri, distinguendolo da quanto veniva ritenuto puramente facoltativo e supererogatorio, ha lasciato un poco in disparte la contemplazione e la via mistica. Sembrava ovvio che bastasse adempiere gli obblighi morali e che la via della sopramorale e della mistica evangelica fossero riservate a pochissimi, e così il richiamo alla perfezione e alla santità. La Chiesa del XX secolo e il Concilio hanno messo fine a questi equivoci, eppure un notevole cammino resta da compiere per superare ulteriormente la lunga separazione tra teologia dogmatica, teologia morale e teologia mistica, e per reintrodurre i riferimenti esistenziali basali alla grazia, alla virtù, all’esperienza mistica.

Uno spirituale e un mistico non sono la stessa cosa. Lo spirituale è istruito sul mistero cristiano, il mistico lo sperimenta. Quando parliamo di esperienza mistica ciò significa che il mistico sperimenta nell’anima, nei suoi sentimenti e volontà, nel suo intelletto un contatto col divino diverso da una semplice visione nozionale.


La ricerca del Nome divino


2. L’uomo desidera conoscere e nominare Dio, chiamarlo per nome e trovando i nomi che meglio gli si attagliano. Nessun desiderio umano è tanto grande ed autentico come questo e nessuno è più difficile per l’uomo e il filosofo. Dio è uno, nessuno e centomila, una realtà sfuggente e misteriosissima: forse il Nome assoluto, il Nome autentico di Dio lo conosce solo Lui, noi conosciamo i suoi molti nomi e da millenni continuiamo a chiedere se vi sia e come si articoli il suo Vero e Unico Nome. Quasi lo stesso accade per il volto di Cristo: chi l’ha mai veramente visto e ce lo può trasmettere se non Cristo stesso? “Vultum tuum, Domine, requiram” (salmo 27, 8). Quanti artisti hanno cercato di rappresentare il volto di Cristo lungo secoli e millenni! (1). Ma l’unità stessa della parola divina si frange nella molteplicità dell’ascolto umano: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (salmo 62,12)

Teologia e filosofia si sono impegnate a fondo per pensare il problema dei nomi divini. Il grande tema affrontato dallo PseudoDionigi è se a Dio si possano attribuire nomi diversi, sia pure quelli applicatiGli nelle Scritture, e dunque se il molteplice può cogliere e dire l’Uno, o se invece Dio, l’Uno soprasostanziale, è assolutamente indicibile da parte dell’uomo. Nello PseudoDionigi notevole è l’influsso del neoplatonismo e in specie di Plotino, che agirono largamente anche su Agostino. Questi scrive a proposito della conoscenza, o meglio della inconoscenza, di Dio: “se lo comprendi, non è Dio”. Ma già tanta parte della Bibbia è intrisa del senso della sua assoluta trascendenza, come emerge nelle esperienze di Mosè che vuol vedere, e non può, la gloria di Dio e il suo volto, e di Elia che percepisce Dio nel fruscio di un vento leggero.

Il teismo a base ontologica tiene fermo che la conoscenza di Dio attraverso la ragione sia possibile: Egli ha lasciato sufficienti tracce di sé perché la ragione umana nel suo esercizio naturale e spontaneo lo possa da lontano riconoscere, mentre il cammino dimostrativo è aperto a pochi e difficile da percorrere. La grande teologia e filosofia hanno elaborato tesori di riflessione per dire qualcosa sull’indicibile, per elaborare portata e limiti della conoscenza intellettuale di Dio e dei nomi che Gli possiamo razionalmente attribuire a partire dalla conoscenza dell’essere e del mondo. E’ l’eterna strada della teologia catafatica o positiva in cui saliamo dalla conoscenza delle perfezioni create a quella delle perfezioni del Creatore, ed a cui si allea necessariamente la via negationis o la teologia apofatica. Ed è di questa conoscenza che Tommaso dirà con un’espressione splendida: in finem nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus. Alla fine della nostra ricerca conosciamo Dio come sconosciuto (2). Sappiamo che è, ma non sappiamo chi sia: non potendo raggiungere la sua essenza che ci rimane ignota, permaniamo nella caligine. Conseguentemente è meno disagevole parlare o nominare Dio in termini negativi: ciò che egli non è, non quanto è. L’analogia entis che ci consente di conoscere qualcosa di Dio, è un’analogia incircoscrittiva, superata dal suo oggetto e incapace di circoscriverlo: Deus sempre maior.

In ciò consiste la grandezza e la miseria della teologia naturale che sale a tentoni dalle cose create alla loro origine. Non possiamo certo disprezzare questo cammino, l’eterno cammino percorso dall’essere umano per raggiungere una qualche conoscenza dell’Assoluto, ma è un cammino in cui Dio è intravisto da lontano, in cui Egli è detto in modi molteplici poiché non può essere detto in un solo modo ed in maniera esauriente. In tale distretta ci si può volgere ai linguaggi non verbali che possono aiutare a ‘dire Dio’, e tra questi in special modo la musica con la sua capacità di alludere e indicare l’invisibile e lo spirituale. Parlo della grande musica, tra cui quella liturgica, non della musica prevalente nel contemporaneo, spesso semplice prodotto di consumo, segnata forse irreparabilmente in senso antropocentrico e materialistico, in quanto sembra capace di esprimere solo l’immediatezza delle emozioni e pulsioni umane più basali e talvolta crude.


3. Riprendiamo la frase di Tommaso: In finem nostrae cognitionis Deum tanquam ignotum cognoscimus. La tradizione cristiana ha usato grande cautela rispetto all’ambizione hegeliana di sapere tutto di Dio. L’idealismo hegeliano appare strutturato intorno all'assunto che la conoscenza di Dio sia qualcosa di agevole. Noi possiamo conoscere Dio, anzi noi lo conosciamo. E se è giusto sostenere che la rinuncia a conoscere Dio è in diretta opposizione a tutta la natura della religione cristiana (3), non vi è in essa alcun appoggio all’idea che Dio sia interamente conoscibile. Nella nostra epoca postateistica prevale piuttosto il senso forte di un quasi totale agnosticismo su Dio.

Dio è spirito” significa in Hegel che Dio è conoscibile e conosciuto; il sapere assoluto lo esaurisce superando la differenza fra fede e sapere. La filosofia è teosofia, sapienza assoluta su Dio. Dio è spirito significa che egli si manifesta necessariamente, che nessun mistero, nessuna teologia negativa è più necessaria. Se né metafora, né parabola sono più richieste per parlare convenientemente di Dio, ciò significa che la filosofia ha esaurito e inverato nel proprio concetto la fede religiosa. Dopo di ciò, dopo la piena manifestazione di Dio, Egli si ritira, Dio adotta la kenosi, affinché l’uomo si dispieghi in pienezza.


4. A coloro che praticano le dissonanti strade di Dio come totalmente sconosciuto e di Dio pienamente manifesto alla ragione, la Bibbia propone il Dio visto da terga, esperienza idonea ad un’epoca di indifferenza religiosa ancipite, cioè aperta in due direzioni. "L'ora in cui viviamo è caratterizzata dall'oscuramento della luce celeste, dall'eclissi di Dio", ha scritto Buber (4). Eclissi di Dio o eclissi dell'ascoltare? Forse Dio parla ancora, ma per intenderlo occorre mutare noi stessi, e renderci capaci di ascoltare la voce sottile del silenzio con cui egli si esprime. La teofania sperimentata da Elia sul monte Oreb (cfr. 1 Re, 19, 9s), quando il Signore passò non nel vento gagliardo, non nel terremoto, non nel fuoco, ma in un'aura leggera, è archetipo del comunicare divino; egli parla con voce sottile e può essere visto durante l'esistenza mondana solo da terga. Il dialogo affascinante tra il Signore e Mosé che vuole vedere la gloria di Dio (Es 33,12ss), si conclude con un invito e un insegnamento: "Ecco qui un luogo vicino a me: mettiti su quella roccia, mentre passerà la mia gloria. Io ti porrò nella buca della roccia e ti coprirò con la mia mano finché Io non sia passato. Poi ritirerò la mia mano e mi vedrai di dietro, ma la mia faccia non si può vedere". Dio dunque ha due aspetti: verso di noi (le spalle) e verso di lui. Poiché ci sono due versanti del divino, c'è in lui ad un tempo rivelazione e inaccessibilità, come ha intuito la teologia più solida. L'uomo può cogliere solo le tracce di Dio, comprendere che è passato di lì, ma il momento del passaggio non lo può cogliere. La difficoltà a percepire Dio nelle tracce sarebbe la condizione esistenziale propria di un tempo postsecolare, di una convalescenza dello spirito ancora troppo malfermo per intendere la voce sottile del silenzio e il Dio da dietro?


La mistica come esperienza fruitiva dell’assoluto


5. Con le considerazioni accennate permaniamo nello spazio della ricerca della mente, siamo ancora per così dire nel vestibolo della mistica, che è prima di tutto esperienza, non soltanto o principalmente elaborazione intellettuale. In radice nell’esperienza mistica cristiana accade una fruizione metaconcettuale dell’Assoluto, un’esperienza fruitiva di Dio e delle sue profondità (i profundia Dei di cui dice san Paolo). Come vi possiamo pervenire? Il vettore dell’esperienza mistica autentica come esperienza donata delle profondità di Dio è l’amore agapico e la grazia, non l’intelletto. L’esperienza mistica di Dio non nasce dallo sforzo dell’uomo ma dalla grazia dello Spirito santo infusa nei nostri cuori. E’ un’unione d’amore tra l’amato e l’amante. Sotto la guida della grazia e dell’amore di dilezione, il soggetto umano è come trasportato all’esperienza dell’unione dall’amore divino che si dona. Amor transit in conditionem objecti: è l’amore che ci prende sulle sue ali e ci connaturalizza con l’oggetto cui nessun concetto potrebbe risultare adeguato.

L’esperienza mistica, che non nasce dall’ascesi dell’uomo, è un pati divina, un esperire recettivo delle cose divine. Nel capitolo II del Trattato sui nomi divini lo Pseudo-Dionigi Areopagita impiega espressamente il termine ‘sperimentare’ per indicare non solo che bisogna aver imparato ma anche sperimentato le cose divine (cfr. 648B). Prestiamo attenzione alle parole: il ‘patire’, lo sperimentare ‘patendo’, è segno di un atteggiamento aperto a ricevere, in cui l’agente fondamentale è e rimane Dio, e questo esclude una dialettica speculativa dei concetti che parta dal soggetto umano e in lui rimanga. L’esperienza di Dio presuppone l’anima e il livello apicale dell’anima spirituale, non principalmente la psiche. La crisi della mistica segna la nascita della psicologia con la sua confusione tra lo spirituale e lo psichico.

L’esperienza mistica non concerne un oggetto o un contenuto manifesti, ma al contrario qualcosa di eccedente, sfuggente e misterioso che è sempre al di là del raggio della mente; un Soggetto infinito che si dà nella caligine come inesprimibile e che può essere in qualche modo attinto mediante l’amore nell’esperienza dell’unione. Così insegna l’Areopagita: “In piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso l’unione con colui che supera ogni essere e conoscenza” (Teologia mistica, p. 406). Si aderisce a Dio con la non-conoscenza, “unito in un modo superiore a colui che è completamente sconosciuto, mediante l’inattività di ogni conoscenza” (p. 409). E in tal modo si viene elevati verso ”il raggio soprasostanziale della divina tenebra” (p. 407). Qui la teologia apofatica mostra il suo nuovo volto che sbocca nell’esperienza mistica: da un lato è parte della ricerca razionale, dall’altro apre al suo superamento verso il dono dell’unione (5).

Dimorando nello spazio dell’esperienza ‘patita’, il soggetto cercherà di rammemorarla per sé e gli altri. Qualcosa certo si è data o, meglio, ci è stata offerta, ma qualcosa che non è alla portata delle nostre misure, che non è manifesto ma nascosto, segreto e dunque ben difficilmente esprimibile. Colui che cerca di descrivere quanto ha ricevuto, ciò che si nasconde nella tenebra e nella caligine, sperimenta presto la sua inadeguatezza, la sua incapacità a dire la sua esperienza: verbum sempre minus. Il soggetto ha raggiunto una realtà talmente grande e ricca che non trova parole adeguate per esprimerla.


6. Lo scopo dell’esperienza mistica autentica è l’unione con Dio in un rapporto sperimentale, amoroso, ineffabile. “Si quis diligit me.. et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus” (Gv 14,23). Dunque la perfezione della vita cristiana consiste nell’amore di carità/agape : di conseguenza l’esperienza mistica autentica ha come vettore l’agape che unisce a Dio. “Qui manet in caritate, in Deo manet et Deus in eo” (I Gv 4,16).

Dobbiamo distinguere mistiche reali quali sono le mistiche d’amore/agape che tendono all’unione d’amore, e mistiche speculative che risultano dubbie. Le seconde che intendono risolvere nella dialettica del concetto quanto è vita e comunione inesprimibile tra uomo e Dio, rischiano di valere come una pseudomistica, una contraffazione della mistica d’amore che nell’unione fra Dio e l’uomo non abolisce la loro differenza: “due nature in un solo spirito e amore”, scrive con perfetta misura san Giovanni della Croce. I due soggetti rimangono ontologicamente diversi, uniti però intenzionalmente nell’atto che fonde l’amato e l’amante. “Nessuno può comprendere la vera distinzione meglio di coloro che sono entrati nell’unità”: questa frase di Taulero viene a confermare che il mistico autentico sa di non essere Dio né pretende di fondersi con la natura divina. Secondo san Paolo qui “adhaeret Deo unus spiritus est: chi aderisce a Dio è con lui un solo spirito (I Cor 6,17). Non è una dialettica intellettuale che ci fa conoscere Dio e unirci a Lui, ma un’esperienza di connaturalità d’amore che ultimamente è estranea al neoplatonismo, nonostante la sua grande importanza per fornire un quadro concettuale e metafisico idoneo a pensare la mistica. In merito lo Pseudo-Dionigi ha dovuto piegare il neoplatonismo a esigenze che lo trascendono, ed ha colto che il vettore dell’unione è la connaturalità o la sim-patia (συμπαθεία).

Le varie forme della mistica cristiana, scaturente ultimamente dalla Trinità e dall’Incarnazione, ossia dal cuore della verità teologale, non sono mai mistiche indistinte del Tutto ma mistiche ‘personalistiche’, rapporto tra persone in cui Soggetto divino e soggetto umano si incontrano e si estasiano l’uno nell’altro. Nella mistica cristiana si esiste dinanzi a Dio col proprio nome, e non impersonalmente di fronte al Tutto cosmico. E dunque l’unione non è in realtà un en kai pan, ma l’incontro misterioso da ‘cuore a cuore’ di due persone e di due soggettività, persona divina e persona umana. Spesso la mistica cristiana è cristica, a partire dalla frase di Gesù: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv, 14,9).


Mistica e mistiche


7. Per orientarsi con discernimento nel lussureggiante e ambivalente mondo della mistica, dobbiamo differenziare le mistiche di trascendenza dalle mistiche di immanenza. Ciò significa che non possiamo ricondurre tutte le forme di misticismo ad una sola mistica, presente dovunque identica, in cui Dio si offre all’anima, ma che l’esperienza mistica non è una realtà univoca, bensì si estende a differenti realtà ed è dunque analoga. Si danno mistiche naturali e mistiche cristiane, mistiche di immanenza e mistiche di trascendenza, mistiche del Soggetto, di Dio, del Cosmo. La pluralità dei tipi di esperienza mistica avverte che ve ne sono alcuni che, pur non essendo classificabili come unione d’amore tra la creatura e il creatore sotto la mozione della grazia, rappresentano tuttavia qualcosa che risponde alla nozione reale generale di mistica quale esperienza fruitiva di qualcosa di ultimo, nascosto, sfuggente, mai completamente svelabile: l’esperienza di qualche forma di assoluto.

Dobbiamo procedere ricorrendo alla fenomenologia e alla tipologia della mistica, avanzando col discernimento necessario in un campo così delicato. Nell’elaborazione della tipologia della mistica naturale nascente dall’esperienza del Sé, come ora vedremo, la fenomenologia della mistica è come sostenuta e indirizzata da una ‘metafisica dello spirito’ che aiuta a discernere e differenziare quanto un approccio esclusivamente fenomenologico potrebbe non essere in grado di distinguere nel fissare i tipi essenziali di ‘conoscenza mistica’.

L’esperienza mistica dovrebbe essere accostata secondo le sue due fondamentali direttrici: mistica delle profondità di Dio e mistica delle profondità dell’io. Quest’ultima presuppone un soggetto capace di discendere oltre l’io fenomenico verso il sé profondo, verso l’atman (il se stesso). Mistica soprannaturale per connaturalità d’amore sotto la mozione dello Spirito Santo la prima, mistica naturale l’altra, che si pone come esperienza, secondo la via del vuoto e dello svuotamento, dell’esistere (esse) sostanziale dell’anima e della nobiltà naturale che le appartiene. Se ogni mistica è un’esperienza fruitiva dell’assoluto, anche quella naturale lo è: l’esse sostanziale dell’anima, un assoluto con la ‘a’ minuscola, è il termine di tale forma naturale di mistica. Essa prolunga uno slancio metafisico di conoscenza, andando però oltre la conoscenza intellettuale, in un cammino di ascesi e di svuotamento in cui l’anima si svuota di ogni operazione particolare e di ogni molteplicità per raggiungere con l’annientamento di ogni atto secondo il proprio esistere sostanziale.

Questo fondamentale atto ermeneutico di differenziazione fra le mistiche di trascendenza e di immanenza, fra loro molto diverse per l’oggetto e per il mezzo formale che le guida, sembra rimanere incerto negli studi sulle religioni. J. Maritain ha elaborato in uno studio di importanza capitale (“L’experience mystique naturelle et le vide”, in Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, 1938) questo approccio, e L. Gardet e O. Lacombe (L’esperienza del Sé. Studio di mistica comparata, Massimo, Milano 1988) lo hanno applicato a Plotino, i Vedanta, lo yoga, la mistica musulmana, quella forse circolante in alcuni poeti. Atto di differenziazione e di discernimento che appunto si fonda sul riconoscimento di una nuova esperienza, quella che il soggetto dotato di spirito in condizione carnale fa del fondo senza fondo (Abgrund?) dell’io, dell’anima, e che amplia la tipizzazione dei modi con cui lo spirito umano raggiunge Dio e se stesso. Forse quello che viene in Oriente tematizzato come un dissolversi nell’Uno-tutto potrebbe ben essere un’esperienza metafilosofica del io profondo, che si concettualizza inadeguatamente come unione all’Uno-tutto.

Mi pare che occorra valutare con attenzione se l’esperienza del divino, di cui le religioni orientali dicono, non sia (spesso? talvolta?) in realtà un’esperienza delle profondità dell’Io/Sé, dunque in certo modo una mistica d’immanenza. Oltre all’ “Io sono tuo” (appartenenza d’amore dell’umano al divino) e all’ “Io sono Tu” ( indistinzione tra io e assoluto/tutto), il soggetto può anche dire “Io sono Io, un assoluto”: esperienza appunto del Sé, delle profondità dell’anima colte in atto primo d’esistenza, non di Dio.

La differenza fra unione per via di nescienza e di svuotamento (diventare un centro immobile, come nello yoga) in cui il soggetto umano guida il cammino contando sulle sue forze, e unione d’amore rimane centrale, e la seconda ricorre nell’esperienza mistica cristiana, che potrebbe accadere anche in terre non-cristiane, ma sempre sotto la mozione divina. E’ pure possibile che vi possano essere in uno stesso soggetto mescolanze di vario genere fra l’esperienza mistica soprannaturale e quella naturale, ma l’alternativa fra le due rimane netta: non può infatti darsi alcuna esperienza mistica naturale delle profondità di Dio (6).


8. Qual è il posto dell’ecclesia nell’esperienza dei mistici? E’ un monos pros monon, un solo a solo con Dio in cui ogni altra relazione è obliata, almeno momentaneamente? Nei mistici cristiani il contenuto delle eventuali rivelazioni loro donate non è altro che il contenuto del mistero cristiano. Se consideriamo Giuliana di Norwich, nelle visioni spirituali e le rivelazioni che ricevette si ritrova il tesoro comune della fede della Chiesa, e così essa ne ebbe coscienza. Nel suo amore per la Chiesa essa si curava della fedeltà all’insegnamento tradizionale della stessa: “Dio mi mostrò il grandissimo piacere che Egli prende in tutti coloro, uomini e donne, che accolgono con forza, umiltà e rispetto ciò che predica e insegna la santa Chiesa; poiché Egli è la santa Chiesa. Egli ne è il Fondamento, Egli ne è la Sostanza” (Le sedici rivelazioni dell’Amore divino, 1373, cap. XVI). In Giuliana la vita mistica si accompagna ad un solido equilibrio. Scrive: ‘all shall be well’ (tutto andrà bene), che sembra riecheggiare la frase di san Paolo secondo cui tutto coopera al bene di coloro che amano Dio.

 

Dag Hammarskjöld


9. Per rendere contemporanee queste annotazioni e verificarle nell’epoca presente potrei volgermi ad esempi conclamati di mistica quali i casi di santa Teresina o di santa Elisabetta della Trinità del Carmelo di Digione. Qui preferisco indirizzarmi ad un personaggio che non apparteneva ad alcun ordine religioso, che non aveva preso i voti e che pervenne ad una profonda fede cristiana in un lungo percorso, senza partecipare alla vita liturgica e sacramentale di alcuna chiesa: Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu dal 1953 al settembre 1961 quando morì in un incidente aereo in Congo, con ogni verosimiglianza provocato da un atto deliberato di sabotaggio. Fu poi premio Nobel per la pace alla memoria. Cristiano senza chiesa? Forse, e forse anche portatore di un’idea individuale della religione. Ma soprattutto un contemplativo nell’azione, che attingeva ispirazione ai mistici medievali (Eckhart, Taulero, Suso, Caterina da Siena, Giuliana di Norwich, La nube della non-conoscenza), a san Giovanni della Croce, e a santa Teresa d’Avila, a L’imitazione di Cristo, e in certo modo a Ignazio di Loyola. Hammarskjöld tendeva a dimenticare il proprio io e agire come uno strumento di Dio.

Nella sua vita si svelò qualcosa di grande, che rimane come un invito per tutti. Egli l’ha lasciato intendere senza ambiguità nelle pagine del suo diario e l’ha riconfermato in un breve scritto “Fede antica in un mondo nuovo”, da cui sono estratte le seguenti espressioni: ”Da generazioni di soldati e di uomini di governo della mia ascendenza paterna ho ereditato la persuasione che nessuna vita dava maggiore soddisfazione di una vita di servizio disinteressato al proprio paese. Questo servizio richiedeva il sacrificio di ogni interesse privato, ma nel contempo il coraggio di battersi fermamente per le proprie convinzioni. Dagli studiosi e pastori luterani della mia ascendenza materna ho ereditato la convinzione che, nel vero senso dell’evangelo, tutti gli uomini sono uguali in quanto figli di Dio e devono essere accostati e trattati da noi come i nostri signori in Cristo… La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso come un membro attivo della comunità dello spirito, l’ho trovata negli scritti di quei grandi mistici medievali per i quali ‘la sottomissione’ è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’ ‘onestà della mente’ e nell’ ‘interiorità’ la forza di dire di sì a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire sì a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro … So che le loro scoperte sulle leggi della vita interiore e dell’azione non hanno perso il loro significato” (7).


Il diario di Hammarskjöld, breve e scarno, mostra un mutamento interiore nel progressivo lento passaggio da un atteggiamento di autoriflessione sulla vita e in specie su se stesso, animati da un travolgente senso del dovere e da un eccesso di introspezione, ad un quadro in cui il rapporto con Dio primeggia sino alla finale ‘resa’ a Lui e all’amore, un termine lungamente raro nella penna dell’autore. La prima esplicita menzione della figura di Gesù si ha solo in un pensiero del 1951, in una frase in cui forte è l’influsso della teologia di A. Schweitzer. Nel 1954, l’anno dopo quello in cui divenne segretario generale dell’Onu, vergò queste righe:


Possa tutto il mio essere volgersi a tua gloria,

e possa io non disperare mai.

Perché io sono sotto la tua mano

E in te è ogni forza e bontà”


Tu che sei al di sopra di noi

Tu che sei uno di noi,

Tu che sei

Anche in noi,

che tutti ti vedano, anche in me,

che io ti prepari la strada,

che io possa render grazie per tutto ciò che mi accadrà.

Che io non dimentichi i bisogni degli altri.

Conservami nel tuo amore

Così come tu vuoi che tutti dimorino nel mio” (8).


E il giorno di Pentecoste del 1961:

 

Non so chi – o che cosa – pose la domanda. Non so quando sia stata posta. Non ricordo cosa risposi. Ma una volta risposi a qualcuno – o a qualcosa.

A quel momento risale la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione, ha un fine” (p. 191).

Hammarskjöld era persuaso che non si può agire correttamente nella vita nel ‘rispondere’ al proprio dovere se non dimenticando se stessi e operando come uno strumento di Dio, e che una vita condotta su queste basi può condurre alla sofferenza, alla croce e al sacrificio della vita: “Chi si è arreso al proprio destino sa che la via della vocazione finisce sulla croce, anche quando passa attraverso le grida di giubilo di Genesareth o l’ingresso trionfale in Gerusalemme” (p. 104).


Tutti i cristiani sono chiamati alla perfezione dell’amore e all’unione con Dio; tutti sono chiamati alla vita mistica di amore e alla perfezione evangelica. Ora la vita mistica si sviluppa sotto l’ispirazione abituale dei doni dello spirito Santo ed ha una latitudine maggiore della contemplazione, che è vita mistica come frutto del dono supremo di Sapienza. Coloro che entrano nella vita mistica sotto l’influsso dei doni dello spirito Santo percorrono diverse vie e raggiungono diversi gradi di unione. In merito chiediamo: fu Dag Hammarskjöld un mistico? Sì, se per mistica intendiamo l’ingresso nel regime dei doni dello Spirito Santo. Ma in specie di quali doni? Ritengo fossero quelli legati all’azione forse più di quelli connessi alla Sapienza e all’Intelletto.

 

Vittorio Possenti

(Università di Venezia)


AlesBelloFestschrift2009


 

Note



  1. Cfr. Nora Possenti Ghiglia, Il volto di Cristo in G. Rouault, Ancora, Milano 2002.


(2) In Boet. de Trinitate, q. 1, a. 2. Cfr. anche Ch. Journet, Conoscenza e inconoscenza di Dio, Massimo, Milano 1981.


(3) “Secondo questa [la religione cristiana] noi dobbiamo conoscere Dio, la sua natura e la sua essenza e stimare questa conoscenza come la più alta di tutte. La questione se si giunga a Dio attraverso la fede, l’autorità, la rivelazione o, come si dice, attraverso la ragione, è una distinzione qui indifferente, perché si tratta di un conoscere che ha liquidato il contenuto, sia esso dato dalla natura della rilevazione divina, sia che a esso si giunga col razionale", G.W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, a c. di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1973, p. 65.


(4) M. Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Ed. di Comunità, Milano 1983, p. 21.


(5) Citazioni tratte da Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi, Milano 1983.


(6) Una lettera di Raïssa Maritain a Ch. Henrion, risalente all’agosto del 1922, mette a fuoco nuclei centrali dell’esperienza mistica cristiana, tra cui la sproporzione assoluta tra l’attività naturale di ogni intelligenza finita e l’oggetto divino, il compito diversificato dei doni dello spirito Santo, la passività e l’oscurità dell’anima nell’unione mistica. Raïssa osserva acutamente che nell’unione Dio è percepito come qualcuno che ci tocca, non come qualcuno che è veduto. Il testo della lettera è in Jacques et Raïssa Maritain, Oeuvres complètes, Ed. Universitaires, Fribourg, Ed. Saint Paul, Paris, 1995, vol. XV, pp. 477-483.


(7) Tracce di cammino, Mondadori, Milano 1997, p. 110.


(8) Tracce di cammino, p. 209 s. Le espressioni citate svelano che egli si distaccò dalla freddezza luterana verso l’esperienza mistica. Poco prima di partire per il suo ultimo volo (17 settembre 1961), in missione come segretario generale dell’Onu in Congo, disse a un amico all’aeroporto di Léopoldville, alludendo ai mistici medievali: “Per loro l’amore era un sovrappiù di forza di cui si sentivano interamente colmati quando cominciavano a vivere nell’oblio di sé”.