Inflazione dei diritti e crisi dei doveri
Vittorio Possenti
La Società, n.1, 2010
L’ideale dei diritti umani riveste da oltre mezzo secolo una funzione di sintesi analoga a quella di altre grandi idee che hanno contrassegnato il pensiero politico moderno: il giusnaturalismo, il contratto sociale, la separazione dei poteri. Il richiamo ai diritti umani è da tempo il punto focale di ogni agenda politica che manifesti un appeal in Occidente e cui ci si volge per le grandi decisioni politiche, ma senza che vi sia sufficiente chiarezza su che cosa sia un diritto umano, e come esso possa sottrarre la politica al rischio di cedere all’irrazionalità. Oggi si assiste anzi ad una crisi dei diritti umani non più radicati nell’intangibile dignità dell’uomo, ad un’inflazione di presunti ‘nuovi diritti’ che trascurano la questione dei doveri, ad una ripresa di uno spiccato individualismo libertario. 1. E' impresa complessa stabilire un'attendibile sequenza della tradizione storica dei diritti umani, se non ci si vuole limitare all'elenco ben noto dei fondamentali atti pubblici che la scandiscono: la Dichiarazione d'Indipendenza del 4 luglio 1776, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 27 agosto 1789, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948. Su piano politico-giuridico la mente va agli antecedenti lontani della Magna Charta, della legge dell'Habeas corpus, della rivoluzione inglese del 1688 col suo Bill of Rights, e così via. In ogni caso la storia delle dichiarazioni dei diritti umani è più breve della vicenda dei dibattiti filosofici su di essi, sulla dignità e fratellanza degli uomini, la loro comune cittadinanza nella grande società del genere umano, l'esistenza di una legge morale superiore ai singoli e ai popoli. Questa tanto più lunga vicenda affonda le sue radici nell'area biblica, greca, ellenistica, romana, e poi cristiana, e riconosce i propri fondamenti nell'idea della dignità dell'uomo e in quella della legge naturale: i diritti umani rinviano ad una legge superiore ai tempi e alle vicissitudini storiche. I grandi pensatori della legge naturale: Sofocle, gli Stoici, Cicerone, san Paolo, Seneca, san Tommaso d'Aquino, ecc. andrebbero considerati quali antesignani della questione dei diritti umani, sebbene ponessero l'accento più sui doveri (De officiis). E andrebbe pure sottolineata l'importanza dei pensatori politici spagnoli del '500 (de Victoria, Soto, Suarez, ecc.), che all'inizio del colonialismo spagnolo proclamarono i diritti degli Indiani d'America all'indipendenza e alla giustizia, nonché quella del giusnaturalismo del XVII e XVIII secolo, e infine il rilievo moderno della teoria politica liberale e democratica. Né sembri esagerato se in questa ricerca all'indietro si possa indicare nel Decalogo, quale codice fondamentale della moralità umana, una prima, forse la prima in assoluto, indicazione implicita di fondamentali diritti dell'uomo, espressi perlopiù nella forma dell'imperativo negativo. Lo stesso Mirabeau nel discorso all'Assemblea Nazionale del 17 agosto 1789 propose di porre il Decalogo mosaico quale preambolo della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. La cosa non deve destare sorpresa, poiché il Decalogo esprime i principali precetti scaturenti dalla legge naturale. La concezione antropologica 2. I diritti umani rappresentano un’esplicitazione della realtà dell’uomo, e danno corpo all’assunto che nessuna antropologia è politicamente irrilevante. In altri termini è impossibile trovare una concezione dell’uomo che sia senza immediati riflessi sulla vita civile e sui diritti. Anzi oggi le questioni antropologiche risultano più decisive di quelle morali. Uomo, chi sei? E’ sempre più difficile rispondere a questa domanda, ma è anche sempre più importante anche in ordine ai diritti umani. La loro concezione dipende fortemente da alcune idee circolanti nella società, come osservava acutamente Tocqueville: “Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi, bisogna che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali, e ciò non potrebbe avvenire se ognuno di essi non venisse ad attingere le sue opinioni a una stessa fonte, e non accettasse di ricevere un certo numero di credenze belle e fatte” (1). Attualmente le visioni dei diritti rinviano a idee sull’uomo in competizione e in contrasto, quali sono la visione cristiana e quella che chiamerò ‘nuova antropologia secolare’. Questa divergenza si manifesta in particolare nel campo dei diritti più direttamente legati all’essere umano: vita, famiglia, sessualità, matrimonio, morte. La visione classica e cristiana, emergente da un lungo processo di elaborazione e approfondimento, si impernia attorno all’idea di persona umana, la quale a sua volta incorpora la nozione universale di natura umana. La determinazione di persona offerta da Boezio le raccoglie in unità: la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale/spirituale (rationalis naturae individua substantia). La persona è primitiva; non si deduce da nulla e non si può ridurre a oggetto (2). Qui si incontra una solida base dei diritti umani ed un pegno della loro fondamentale universalità. La nozione stessa di diritti dell’uomo non avrebbe senso se non fosse sostenuta dall’idea di persona cui essi ineriscono, e dal concetto di natura umana di cui sono un’esplicitazione. Secondo il realismo filosofico il concetto di natura umana non è un puro flatus vocis o un termine nominale cui si può attribuire un contenuto qualsivoglia. E’ un concetto definibile e fondato nella realtà, che contiene i caratteri universali presenti dovunque vi sia un essere umano. Al concetto di natura umana corrisponde quello di legge naturale di tale natura/essenza. Emerge così il problema della forza normativa della natura umana, che sta lentamente riacquistando peso nel campo dell’etica, della politica e del diritto. Queste posizioni consentono di intendere in modo autentico il richiamo oggi diffusissimo all’autodeterminazione, la quale non può essere intesa come possibilità di diventare ciò che si vuole, ma di diventare liberamente ciò che si è per natura. A partire dall’evento originario della Creazione dell’uomo, la rivelazione del cristianesimo pensa l’essere umano come portatore di una scintilla divina, come imago Dei. E’ a queste profondità che si radicano il valore e la dignità dell’uomo: egli proviene da Dio ed a lui ritorna attraverso un’ordinazione immediata e diretta che trascende ogni bene comune terrestre. L’antropologia cristiana pensa l’uomo come dotato di logos, ossia di ragione e linguaggio, e perciò teso ad un’attività libera, attento al discernimento tra il bene e il male, aperto verso la trascendenza, uditore della Parola, e capax Dei. Le posizioni personaliste affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica: l’uomo non è un oggetto del mondo, qualcosa di riconducibile al cosmo, ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza di sé. 3. La nuova antropologia secolare. La concezione tradizionale dell’essere umano si è trovata sfidata negli ultimi decenni in molte maniere, tra cui qui sottolineo la critica veemente proveniente dall’evoluzionismo e dal riduzionismo. Sta in effetti mutando l’immagine dell’uomo che viene trasmessa nella società, e che si struttura come nuova antropologia secolare. Questa rifiuta l’idea di una natura umana comune, e piuttosto ritiene che l’essere umano sia una mera costruzione sociale in cui emergono la storicità delle culture, la decostruzione e la relatività delle norme morali, la centralità quasi inappellabile delle scelte individuali. Nel caso della famiglia e della procreazione ciò implica che maternità e paternità siano realtà costruite socialmente, che di conseguenza possono ad ogni momento essere liberamente ridefinite: non vi sarebbe alcuna definizione stabile e naturale di maternità, paternità, famiglia, dei vari ruoli, ma tutto risulterebbe sfuggente, instabile e malleabile. Terminata in maniera catastrofica la prova totalitaria del XX secolo vòlta a modificare politica e mondo, si tenta ora di trasformare l’uomo mediante la tecnica da un lato e l’appello alla libertà monocratica del singolo dall’altro. L’influsso della scienza e della tecnica sul cambiamento in corso è espressamente mirato all’uomo, per formarne una nuova comprensione. La nuova antropologia secolare non solo espone una versione compiuta dell’esistenza umana lontana dall’antropologia della tradizione, ma riesce ad influenzare i programmi e le politiche di molte organizzazioni internazionali, e ad essere presente in modo massiccio sui media mondiali. E’ divenuta l’antropologia implicita o esplicita di tante scienze sociali. Ne segue una seria difficoltà a far circolare una visione antropologica diversa, poiché quella ‘secolare’ è considerata ovvia, autoevidente, sostenuta dall’autorità della scienza, e scarsamente bisognosa di argomenti avvaloranti. Alla base vi è l’idea che sia impossibile offrire un resoconto universale della natura umana, e che alla conoscenza dell’uomo si può accedere solo attraverso le scienze. I diritti umani sono fondati nella legge naturale 4. Una sintonia di base corre tra l’universalità della Dichiarazione del 1948 e l’universalità dell’antropologia propria del cristianesimo. L’universalità dei diritti scaturisce dall’idea che la natura umana è dovunque la stessa, e che i diritti principali sono in essa fondati e non valgono come un’invenzione occidentale, come si disse negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso. L’universalità della natura umana non muta attraverso il tempo e le culture, e rimane riconoscibile in virtù di una serie di atti che si mostrano dovunque: elaborare concetti, scegliere tra diversi corsi di azione e possibilità, creare l’arte, la filosofia, la scienza, la musica, essere sensibili all’idea del giusto e dell’ingiusto, ecc. L’idea che la natura umana è dovunque la stessa implica che il processo di esperienza, riflessione e giudizio compiuto dai singoli esseri umani sia capace di condurre alle stesse verità fondamentali, e dunque ad una vera universalità dei diritti umani principali. La nozione di diritto umano ha senso se e solo se si concede che esiste un’universale natura umana, che può essere conosciuta attraverso esperienza e ragionamento. I diritti scaturiscono dalla prima radice costituita dalla legge morale naturale, propria della natura umana, e capace di garantire un approccio transculturale ai diritti. Si tratta di legge morale e non fisica, propria dunque degli esseri dotati di ragione. Ciò dà origine ad un nucleo comune di principi normativi essenziali, che appartengono a tutti, non sono una proprietà od un’invenzione del mondo civilizzato, ma un bene comune che nasce dalla coscienza morale di tutti (3). In virtù della partecipazione della ragione umana alla Ragione di Dio, Tommaso d’Aquino stabilisce la legge naturale come partecipazione della legge eterna nella creatura razionale (4). A partire dalle inclinazioni fondamentali inscritte nella natura umana, la legge naturale assegna i nostri doveri e diritti (5). In questo modo essi fanno riferimento a qualcosa di incondizionato, di stabile e di indisponibile, e non assumono un carattere meramente contrattuale derivante da un accordo, o un valore derivante solo da un atto di una maggioranza politica. I diritti umani appartengono all’area del diritto, non della decisione politica attivata da una maggioranza. Non sono un fatto solo giuridico ma morale e antropologico, ed obbligano in coscienza non perché sono statuiti dalla legge positiva ma in base al loro radicarsi nel bene: si potrebbe dire che i diritti umani sono antropologici, non politici. Il radicamento dei diritti nella legge naturale conduce all’idea che esistano diritti validi per natura e non per convenzione, un assunto che le scuole del positivismo giuridico negano espressamente. Tra i vari studiosi di tale orientamento ricordo N. Bobbio. Questi ritiene che esistano solo diritti a contenuto non assoluto e cangiante: "Ce qui parait fondamental dans une époque historique ou dans une certaine civilisation, n'est pas fondamental en d'autres époques et en d'autres cultures. Il ne peut pas y avoir un fondement absolu de droits historiquement rélatifs" (6). Naturalmente il fondamento stabile dei diritti non significa astoricismo, rimanendo vero che i diritti umani sorgono nella storia man mano che singoli e società ne prendono coscienza. II Catechismo della Chiesa Cattolica riassume il contenuto della dottrina sulla legge naturale, rilevando che essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Ha come perno l'aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell'altro come uguale a se stesso. Nei suoi precetti principali essa è esposta nel Decalogo. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana” (n. 1955). Da tempo per influssi ideologici, filosofici e scientistici la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre concezioni che ne sono la negazione, conducendo verso un’idea positivista del diritto, in cui la società, o la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile. Naturalmente i diritti dell’uomo assumono concretezza e forza nel momento in cui vengono riconosciuti e tutelati come diritto positivo. Ma si tratta appunto di riconoscimento, non di creazione: se i diritti e i doveri dell’uomo e la dignità della persona sono radicati in un ordine stabile e non dipendente da un voto assembleare, si riducono molto i rischi di una loro interpretazione esclusivamente positivistica che ultimamente conduce al nichilismo giuridico. In questo si teorizza l’idea che la legge positiva possa avere qualsiasi contenuto e che la sua posizione dipenda non da un atto della ragion pratica ma solo da un atto della volontà in un determinato momento dotata di potere impositivo. Nel nichilismo giuridico non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto e ingiusto prendono valore solo dopo la statuizione della legge positiva (7). 5. Il prezioso contributo ai diritti umani della Dottrina sociale della Chiesa, che si esplica anche con la presenza della Santa Sede nelle grandi organizzazioni multilaterali, sta nel costante raccordo del discorso sui diritti con la chiave antropologica della dignità della persona, con la legge naturale e il diritto naturale. Quest’ultimo ha trovato nuova vitalità nel mutamento del contesto culturale avvenuto intorno al 1989 col crollo del comunismo, e con l’assunto che il diritto non può essere esclusiva produzione dello Stato, ma garantito sopra esso. Un passaggio-chiave del discorso di Benedetto XVI all’Onu (18 aprile 2008) riassume felicemente gli aspetti centrali richiamati: “l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della dignità umana. E’ evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno di Dio creatore per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti”. Il Diritto nel giusnaturalismo e il rapporto intrinseco tra diritti e doveri 6. Il Diritto. Dalla percezione che l’essere umano non è un oggetto o una cosa nasce il sentimento di qualcosa che gli spetta, di un suum da riconoscergli, ossia di un Diritto naturale (jus naturale) che esiste in lui. Da qui sorge un costante sentimento di insoddisfazione verso il diritto positivo, reso necessario dal senso di giustizia che una volta che ha prodotto diritto e legge, procede a criticarli e ad elaborare una nuova misura. I vari sistemi giuridici possono essere intesi come approssimazioni ad un unico testo-base, originario e primario, che è il diritto naturale o il giusto naturale, e dunque il diritto positivo non è mai eterno, ma essenzialmente decostruibile e riformabile in base all’intuizione del giusto naturale. Si instaura così necessariamente un circolo in cui il diritto positivo nasce dalla percezione del suum che spetta ad ognuno e dalla giustizia che lo attribuisce, e che prosegue con la critica di ogni diritto posto in base all’idea del giusto naturale. Il motore reale del fenomeno giuridico dovunque è la sproporzione o la non-conformità tra diritto positivo e diritto naturale, e senza questa inadeguazione il fenomeno giuridico potrebbe scomparire. Con queste frasi abbiamo riassunto il contenuto essenziale della posizione giusnaturalistica, la quale tiene fermo che diritto e giustizia non sono mera espressione di volontà ma di ragione, ossia che diritto e giustizia, pur comportando elementi contrattuali e pattizi, non si riducono ad essi ma includono elementi reali attinenti alla natura delle cose, dell’uomo e dei rapporti tra soggetti. Reciprocamente nelle posizioni antigiusnaturalistiche radicali il tema della giustizia è ritenuto senza soluzione, di modo che questa e il diritto sono affidati al volere e al potere. Nel giusnaturalismo esiste un’anteriorità del Diritto sulla Giustizia, per cui il compito di questa è realizzare quello. Per la comprensione di tale nucleo occorre precisare la nozione primaria di diritto (al singolare) come la determinazione di qualcosa che è dovuto all’essere umano come tale, che in quanto è un ‘io’ è parimenti un soggetto di diritto, e che ontologicamente non è semplicemente parte di una totalità, ma è un ‘tutto’. Orbene questo qualcosa che è dovuto all’essere umano è il suo diritto, di cui gli altri agenti morali sono obbligati in coscienza a riconoscergli e a non privarlo: è il suum che spetta alla persona come ‘suo dovuto’. In senso fondamentale il diritto è l’avere titolo intrinseco al proprio suum, e questo concetto veicola quello di obbligazione, l’essere cioè vincolati al rispetto del suum di ciascuno e di tutti. In altri termini l’idea stessa di diritto veicola necessariamente quella di dovere: dovere verso l’altro e dovere/obbligazione verso il bene, per cui diritti e doveri procedono strettamente congiunti senza che sia possibile porre i diritti al di sopra dell’obbligazione. Esistono dunque due significati di diritto: il diritto come ciò che è dovuto alla persona, che le spetta per natura e che si apre a relazioni di giustizia, e il diritto positivo che ha per scopo la realizzazione della giustizia e la sanzione. Il massimo compito della giustizia politica è il rispetto dei diritti umani. Che nei diritti umani si incarni la giustizia e che il loro rispetto sia compito primario della politica è la posizione di Benedetto XVI: “La Dichiarazione universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali…I diritti umani debbono essere rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori” (discorso all’Onu, 2008) In tal modo si trasmette l’idea che i diritti umani non veicolano un’etica utilitaristica ma sono espressione di giustizia. Inflazione dei ‘diritti’ e deflazione dei doveri 7. Il nesso che rinvia dai diritti ai doveri è antico e presente nella dinamica di alcune dichiarazioni francesi dei diritti e dei doveri, fra cui quella inserita nella Costituzione della Repubblica francese del 5 fruttidoro anno III (22 agosto 1795): “Tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principi, impressi dalla natura in tutti i cuori: Non fate agli altri ciò che non vorreste che sia fatto a voi stessi; fate costantemente agli altri il bene che vorreste riceverne”. Andrebbe poi evocata la tradizione mazziniana dei doveri, che emerge dal titolo stesso dell’opera, piccola ma succosa, intitolata appunto I doveri dell’uomo. Stesa da Mazzini nel 1860 e dedicata significativamente “agli operai italiani”, il libro sottopone a critica la concezione dei diritti dell’uomo uscita dal 1789, e poi sostenuta dalle correnti che assegnano rilievo al benessere e alla libertà del singolo, e che pongono gli interessi materiali come fine. Dopo aver trattato di Dio e della Legge, Mazzini introduce e discute quattro livelli di doveri: verso l’umanità, verso la patria, verso la famiglia e verso se stessi. 8. Di fronte a tali esempi di un passato ormai lontano, da tempo si assiste ad un’inflazione di ‘nuovi diritti’ e alla concomitante difficoltà di contemperarli in modo che non entrino reciprocamente in conflitto. La crescita è accaduta secondo tre modalità: la proclamazione di nuovi diritti che non sono esplicitamente riconosciuti nella Dichiarazione universale; la tendenza da parte di istituzioni internazionali, tra cui la Commissione Onu sui diritti umani (oggi conclusa), di procedere alla proclamazione di nuovi diritti umani senza fare riferimento all’Assemblea dell’Onu; la facilità con cui sono stati evocati nuovi diritti di cui non consta la base o il fondamento. Si pensi al diritto al turismo e al diritto al disarmo, che possono esprimere un voto o un auspicio variamente meritevole, ma che non sono in senso proprio diritti. Dobbiamo ora esaminare questi temi. L’assunto del Magistero cattolico è che coloro che hanno a cuore i diritti debbano rinunciare a liberarli dai doveri, poiché i diritti vengono svuotati e diventano altro quando si rescinde il legame coi doveri. Negli interventi del Magistero questo nesso è stato sottolineato molte volte: ciascuno può rendersene conto consultando gli indici per temi delle raccolte di documenti della Chiesa sui diritti umani (8). Il tema è ripreso dal recente Compendio della Dottrina sociale della Chiesa: “Il Magistero sottolinea la contraddizione insita in una affermazione dei diritti che non ammetta una correlativa responsabilità” (9). Secondo la Pacem in terris (1963) “nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto” (n. 264). Sono gli stessi principi fondanti della Dottrina sociale della Chiesa che includono necessariamente la relazione diritti-doveri, come ben illustra il suddetto Compendio (cfr. cap. IV, Parte prima, pp. 87-114), richiamando i principi del bene comune, della destinazione universale dei beni, di sussidiarietà, di partecipazione e di solidarietà. Ora, tali principi si possono del tutto legittimamente comprendere come includenti i doveri correlativi, ossia il dovere di edificare il bene comune, di operare per un’adeguata destinazione universale dei beni, di costruire solidarietà e sussidiarietà, ecc. La solidità della posizione di principio deve fare i conti con la situazione contemporanea reticente sui doveri. Valga qui un’espressione di Giovanni Paolo II, esplicita nel rilevare la carenza del discorso sui doveri: “Un’osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d’insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo” (10). Se viene a mancare la base del diritto naturale è quasi fatale che si rivendichino ‘diritti’ che non hanno fondamento nella natura umana. I suggerimenti di Giovanni Paolo II significano che occorre sviluppare le basi antropologiche e morali della Dichiarazione universale, che non le contiene o le ospita solo indirettamente. Ciò anche allo scopo di evitare che presunti diritti o meglio meri desideri o pretese si ammantino della potenza evocativa e del prestigio del termine ‘diritti dell’uomo’, per volgersi verso fini non coerenti con la dignità della persona. 9. E’ dunque urgente ristabilire il nesso inscindibile tra diritti e doveri, necessario affinché la società civile si presenti come luogo di responsabilità pubbliche, all’insegna di un’etica della responsabilità e reciprocità. Per ottenere l’esito occorre chiarire che non si possono ridurre i diritti umani a diritti di libertà o porre questi ultimi al di sopra di ogni altro diritto: essere trattato come fine e non soltanto come mezzo non è un diritto di libertà, ma è la quintessenza della giustizia, da esercitare verso le donne, i deboli, gli svantaggiati, i vinti; il rispetto cui ha diritto l’embrione umano non è un diritto di libertà; neanche il diritto alla vita è un diritto di libertà; essere lasciate morire (in certi paesi) perché femmine che non generano reddito non è un’azione che viola un diritto di libertà. E’ impossibile affrontare la sfida ecologica sulla base dell’individualismo o su quella della libertà negativa; lo stesso vale per le questioni della solidarietà con le generazioni future. L’esemplificazione potrebbe continuare a mostrare lo strabismo che si commette nell’individuare nella libertà lo scopo politico ultimo e nel porre i diritti di libertà al di sopra di tutto. Ovviamente la libertà è e rimane un grande bene, eppure non può essere l’unico, pena il fatto che la giustizia venga congedata. Abbiamo dunque bisogno di una concezione postliberale dei diritti umani, denotata da tre nuclei: i diritti di libertà non devono avere sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; infine più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo, perché questo è il bene comune il quale includa naturalmente anche la fruizione della libertà. Occorre operare una differenza tra personalismo comunitario e personalismo liberale vertente sull’individuo. Un modo diffuso e insieme problematico di intendere i diritti umani si fonda sull’idea che essi riassumano nel divieto di interferire nella sfera altrui, e che di conseguenza in essi si esprima l’impossibilità di chiedere ad altri qualcosa che questi possono dare solo nella forma dello scambio: io appartengo solo a me stesso; io sono mio, io sono irrelato e non instauro rapporti con gli altri se non contrattualmente. Sempre più frequentemente si punta sul singolo inteso senza legami, senza affetti, senza inserimento in una reale comunità, su un’ipertrofia del sé da cui fluisce un’illimitata competizione fra soggetti separati intenti soltanto a promuovere se stessi, a dimettere le virtù civiche, ad elevare il singolo sopra e contro il bene comune. Questi rivendica una libertà senza misura, sostanzialmente ‘divina’ – la divina autonomia dell’uomo – indifferente all’aspetto sociale della vita e nel contempo fortemente segnata dalla tecnicizzazione delle esperienze fondamentali del vivere e del morire. Per una nuova semantica dei doveri 10. Le posizioni dei gruppi di interesse che reclamano sempre nuovi diritti si appellano a tre fattori che diventano il perno del loro argomentare: la libertà del singolo da ogni interferenza, il pluralismo dei valori, l’assunto che i valori riguardano solo la sfera privata. Ma la crescente sproporzione tra diritti e doveri richiede una nuova semantica dei doveri. E’ noto che la Dichiarazione universale è assai parca in merito, destinando solo il primo comma dell’art. 29 ai doveri: “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità”. La sobrietà può forse essere spiegata in rapporto al periodo in cui si usciva da atroci violazioni dei diritti umani che suggerivano di insistere sui diritti: la rilettura attuale rileva tuttavia che siamo dinanzi ad un’esplicitazione troppo sintetica e infine insufficiente. « Quand on lit la Déclaration Universelle des droits de l’homme dans la perspective africaine subsaharienne, on est frappé par la place accordée à l’individu, pendant que la communauté semble jouer un rôle nettement subordonné (cf. art. 29). Il est évident qu’un telle conception se heurte à des difficultés dans la tradition africaine qui attache une grande importance à la communauté » (11). Bujo spiega che mentre in Occidente ci si riferisce all’idea kantiana di individuo centrato sulla sua libertà e geloso all’eccesso della sua autonomia, nell’Africa nera ”les personnes n’existent qu’en relations interpersonnelles” (p. 20). Durante la preparazione della Dichiarazione del 1948 alcune voci si erano levate per ricordare il rilievo dei doveri. René Cassin stese una ‘bozza Cassin’ che fu presentata alla Commissione dei diritti umani (Human Rights Commission) incaricata di preparare la Dichiarazione universale. Cassin aveva ben compreso il rilievo del problema dei doveri, osservando che ciascuno, potendo raggiungere i suoi fini con l’aiuto cooperativo della società, contrae dei debiti nei suoi confronti. La lista dei doveri che propose, includeva ‘obedience to law, exercise of a useful activity, acceptance of the burdens and sacrifices demanded for the common good’ (12). Sebbene l’elenco non risultasse molto esteso, venne ulteriormente diminuito sino alla finale breve sopravvivenza presente nell’art. 29. La questione dei doveri non è sufficientemente presente nelle risposte di grandi personalità cui l’Unesco nel 1947 indirizzò un questionario sui problemi connessi alla preparazione della Dichiarazione universale. Tra le oltre 30 risposte, raccolte nel 1949 nel volume Autour de la nouvelle déclaration universelle des droits de l’homme, solo poche menzionano il problema dei doveri. In particolare si segnala la posizione del Mahatma Gandhi: “Ho imparato da mia madre, illetterata ma molto saggia, che tutti i diritti degni di essere meritati e conservati, sono quelli dati dal dovere adempiuto…E’ probabilmente abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza”(13). L’estendersi di un atteggiamento che rivendica diritti, veri o presunti, dimentica che il Gange dei diritti discende dall’Himalaya dei doveri. Da altri punti di vista S. De Madariaga e P. Teilhard de Chardin toccarono il tema. Secondo il primo “la parola e il concetto diritti appare dapprima troppo angusto, perché tale parola non rappresenta che un aspetto delle relazioni tra l’individuo e la società in cui vive…L’uomo è una sintesi che si potrebbe chiamare l’individuo-nella-società” (p. 65s). Per Teilhard l’uomo deve imparare a integrarsi nella società, a personalizzarsi tenendo conto dei suoi legami sociali sempre più esigenti (p. 149s). La tendenza ad insistere sui diritti vale anche oggi: nella Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dicembre 2000) vi è un solo cenno ai doveri, nel Preambolo: “Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. L’articolato, che pur si presenta leggermente più ampio dell’art. 29 della Dichiarazione Universale per il significativo cenno alla responsabilità verso la comunità umana e le generazioni future, rimane insufficiente a controbattere l’enfasi sui diritti a scapito della formazione di un nuovo senso dei doveri. Il ricorso ai criteri di eguaglianza e non-discriminazione quale leva per produrre ‘nuovi diritti’ 11. La necessità di sviluppare le basi antropologiche e morali della Dichiarazione universale si fa manifesta nella dialettica contemporanea, in cui la visione personalistica e dignitaria dei diritti umani incontra difficoltà in rapporto alla visione libertaria degli stessi. La prima è intrinsecamente disposta a riconoscere il legame interno tra diritti e doveri, mentre la corrente libertaria e individualistica moltiplica i diritti e fatica molto a vederne il nesso coi doveri, pervenendo talvolta ad un acuto loro sbilanciamento. Singoli gruppi di interesse operano per includere nell’agenda dei diritti umani desideri e pretese che non sono propriamente diritti reali. Di fronte alla crescente richiesta di ‘nuovi diritti’ è necessario un attento discernimento tanto per non bloccare l’effettivo valore di nuovi diritti quanto per non elevare a diritti ciò che non lo è e che vale solo come pretesa. Un tale discernimento può essere raggiunto mediante il tentativo di rispondere a domande del tipo: quale bene reale il ‘nuovo diritto’ cerca di tutelare? E come si collega ai diritti basali? Negando il preteso ‘nuovo diritto’ si compie ingiustizia e discriminazione verso qualcuno? Il punto cardine su cui si fa leva per reclamare nuovi diritti o imporre un’interpretazione libertaria dei diritti umani, in specie di quelli attinenti la sfera della vita, della sessualità e del matrimonio, è la nozione di uguaglianza, cui si collega quella di respingere ogni discriminazione. Attraverso il loro impiego desideri o pretese individuali puntano ad essere riconosciuti quali diritti per tutti, aprendo le porte ad un pericoloso ‘individualismo collettivo’ e ad inevitabili contrasti. Il perno del problema consiste nel ritenere assoluti i principi di uguaglianza e di non discriminazione rispetto agli altri diritti fondamentali. Ciò in concreto comporta che a tutti si deve riconoscere un’uguaglianza aritmetica e astratta, chiedendo pari trattamento giuridico per situazioni che sono e rimangono fondamentalmente diverse. In altri termini, se è vero che un’uguaglianza fondamentale deve essere riconosciuta alle persone per quanto concerne un notevole numero di diritti quali il diritto alla vita, alla libertà religiosa, al lavoro, alla liberazione della miseria, non possiamo impiegare in maniera illimitata il criterio di uguaglianza e quello di non-discriminazione, senza ledere altri fondamentali diritti della persona. La questione segnalata incrocia quella della differenza: se quest’ultima viene assolutizzata, allora non esisterebbero più diritti universali in cui si esprime la comune umanità, ma solo ‘diritti’ ad affermare la propria diversità. L’impiego geometrico del criterio di eguaglianza dimentica che la differenza non è sinonimo di diseguaglianza e di discriminazione. Discrimininare non è sempre qualcosa di cattivo o ingiusto, poiché è semplice giustizia trattare in modo diverso cose diverse. Fare delle differenze o riconoscerle non significa ipso facto discriminare. La differenza non si oppone all’eguaglianza ma alla somiglianza e all’identità. Gli esseri umani sono uguali per natura, ma diversi o differenti in tante altre cose. Non possiamo definire discriminazione una qualsiasi differenza: ciò sarebbe solo un falso egualitarismo in cui non esistono più volti, ma tutto è indistinto, amorfo e intercambiabile. Si apre così una strada verso un funzionalismo che perde il senso del valore delle persone e fa perno su un’idea di libertà che sconfina in quella secondo cui tutto è modificabile, malleabile, intercambiabile. In particolare si perde così il legame tra sessualità, coniugalità e procreazione. Nel discorso all’Onu del 2008 Benedetto XVI ha ricordato che “la Dichiarazione fu adottata come ‘comune concezione da perseguire’ (preambolo) e non può essere applicata per parti staccate, secondo tendenze o scelte selettive che corrono semplicemente il rischio di contraddire l’unità della persona umana e perciò l’indivisibilità dei diritti umani”. La Dichiarazione non è una lista di garanzie assolutamente separate l’una dall’altra, di modo che ciascuno a piacere ne estrae quella che al momento gli viene utile. Essa è un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, di modo che nessun diritto può essere assolutizzato e portato all’infinito a spese degli altri, e in specie dei diritti fondamentali. Se i diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti è impossibile assumerne uno ignorando la sua relazione con gli altri di modo che nessun diritto può essere lasciato fuori e nessuno completamente subordinato ad un altro. D’altra parte se ogni diritto viene inteso come un assoluto privo di qualsiasi limitazione, l’esito sarà solo un inconciliabile conflitto. Ciò significa che oggi come ieri e domani abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani che ne conservi e ne illustri il valore. Integrazione dell’attuale Dichiarazione o una seconda Dichiarazione universale? 12. Nella Dichiarazione universale del 1948 si incontra un documento basilare che va difeso da ermeneutiche devianti che lo avviano al declino. Il problema concerne il modo con cui aggiornare la Dichiarazione, ossia se attraverso un processo evolutivo in linea con le sue intuizioni di fondo, o eventualmente ricorrendo ad una seconda Dichiarazione. Ritengo che strada migliore sia quella di procedere ad un’integrazione della Dichiarazione universale su alcuni punti, tra cui la ricerca di un più chiaro ed esplicito bilanciamento tra diritti e doveri. Occorre riattualizzare la Dichiarazione tenendo conto che la cultura occidentale di indirizzo individualistico e libertario non è condivisa in altri contesti di civiltà, e che sarebbe una sciagura insistere in tale direzione. Alcuni nuclei del processo integrativo dovrebbero riguardare il chiarimento del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale, i nuovi doveri verso il creato, una maggiore resistenza contro l’estensione dei criteri di eguaglianza e non-discriminazione fatti valere in maniera illimitata dalle ali radicali e libertarie. Consideriamo l’art. 3: “Every one has the right to life, to personal liberty and to personal security”. Durante i lavori preparatori della Dichiarazione fu richiesto di precisare meglio e più distintamente la portata del diritto alla vita. La delegazione libanese, in cui spiccava la personalità di Charles Malik, aveva depositato il seguente articolato: “Every one has the right to life and bodily integrity from the moment of conception, regardless of physical or mental condition, to liberty and security of person”. Una seconda richiesta di integrare il dettato dell’art. 3, considerato troppo succinto sul diritto alla vita, provenne dalla delegazione cilena secondo cui il diritto alla vita spettava agli ‘unborn childrens and incurables, mentally defectives and lunatics’. I due tentativi però non ebbero successo. Il diritto alla vita include il diritto al cibo e all’acqua, quale sua implicazione immediata. Il diritto all’acqua non è stato ancora riconosciuto come tale. Nel recente V Forum mondiale sull’acqua, svoltosi a Istanbul (marzo 2009), la nozione di “diritto di accesso all’acqua” non ha trovato posto. L’acqua compare come una necessità umana fondamentale, non come un diritto. Inoltre i dibattiti che in proposito si sono accesi testimoniano che esso non può venir inteso soltanto come diritto individuale alla vita, ma come diritto a dimensione anche sociale, divenendo diritto alla continuazione dell’esistenza dell’uomo sulla terra e alla salvaguardia del creato. 13. La sorte della Dichiarazione universale è legata alle fondamentali culture da cui ha preso origine e vigore, ed alle loro posizioni attuali, ossia in estrema sintesi alla radice cristiana ‘dignitaria’ e a quella l’illuministica ‘libertaria’ la quale include le due tradizioni del liberalismo e del socialismo. Da vari eventi sembra evincersi che queste due radici stiano allontanandosi. Scrive un osservatore acuto: “La cultura contemporanea dei diritti dell’uomo non si alimenta solamente a questa ispirazione cristiana. Essa deriva anche dal progetto di autonomia assoluta del soggetto umano creato dalla modernità e sfociante nell’individualismo edonista… La matrice antropologica cristiana – anche laicizzata – che ha fortemente ispirato i grandi documenti della metà del XX secolo (Dichiarazione universale del 1948, Convenzione europea del 1950, ecc.) tende a lasciar posto ad un’altra lettura, quella che, in nome della libertà, erige in assoluto l’ego dell’essere umano, ridotto alla capacità di godere dei beni materiali senza altro freno che l’utilità sociale giuridicamente definita” (14). Nel processo di allontanamento dell’interpretazione libertaria e di quella dignitaria dei diritti umani gioca un ruolo crescente l’azione di organismi, esperti e burocrazie nazionali e internazionali che, invertendo l’ordine della legittimità che spetta al diritto, preparano documenti e dichiarazioni influenzati dall’istanza libertaria e che i politici non di rado si limitano ad avallare. In ogni caso non bisogna indietreggiare dinanzi alle pretese della ‘nuova antropologia secolare’ oggi promossa dai media, e ciò può essere adempiuto mostrando il valore e la solidità dello schema antropologico della tradizione e rilevando carenze, riduzionismi e semplicismi del nuovo schema. Note (1) A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli-BUR, Milano 1992, l. III, p. 427. E poco oltre prosegue: “Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un’idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l’umanità, della natura dell’anima e dei doveri verso i suoi simili. Non si può negare che queste idee non siano la fonte da cui deriva tutto il resto. Gli uomini hanno dunque un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l’anima e i doveri generali verso il Creatore e verso i suoi simili, poiché il dubbio su questi ultimi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all’impotenza. Questa è dunque la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione”, p. 437. (2) Questi aspetti sono elaborati in V. Possenti, Il principio-persona, Armando, Roma 2006. (3) Nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 l’elemento giusnaturalistico, secondo cui i diritti dell’essere umano non provengono dallo Stato ma dal Creatore, appare con tutta evidenza: “We hold these truths to be self-evident: that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights, that among these are life, liberty and the pursuit of happiness, that to secure that rights governments are instituted among men, deriving their just powers from the consent of the governed, that whenever any form of government becomes destructive of these ends, it is the right of the people to alter or to abolish it, and to institute new government, laying its foundations on such principles, and organizing its powers in such form as to them shall see most likely to effect their safety and happiness”. (4) Cfr. S. Th., I II, q. 91, a. 2. (5) “La vera filosofia dei diritti della persona umana si fonda sull’idea i legge naturale. La stessa legge naturale che ci prescrive i nostri più fondamentali doveri, e in virtù della quale ogni legge obbliga, è essa pure quella che ci assegna i nostri diritti fondamentali”, J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 61. (6) "L'illusion du fondement absolu", AA.VV., Le fondement des droits de l'homme, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 5 s. Bobbio non ha potuto superare questa apparente difficoltà, perché si è sempre tenuto lontano dall'idea di legge naturale e dal fatto che i diritti umani si radicano a diverse profondità in essa. (7) Su questi aspetti cfr. V. Possenti, L’uomo postmoderno. Tecnica, religione, politica, Marietti, Milano 2009. (8) Cfr. ad esempio G. Filibeck, I diritti dell’uomo nell’insegnamento della Chiesa. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II (1958-1998), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001. (9) Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana 2004, Città del Vaticano, n. 156. (10) Pacem in terris: un impegno permanente, Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata Mondiale della pace, 1 gennaio 2003. Analoghe posizioni si riscontrano nel card. Ratzinger che nel dialogo monacense con J. Habermas (2004) osservò: “Forse oggi la dottrina dei diritti umani dovrebbe essere integrata con una dottrina dei doveri umani e dei limiti dell’uomo, e ciò potrebbe ora aiutare a rinnovare il problema se non possa darsi una ragione della natura e così un diritto naturale per l’uomo e il suo dimorare nel mondo”. Gli interventi di Habermas e Ratzinger sono raccolti in Humanitas, n. 2, 2004. La citazione del secondo è a p. 257. Sul nesso diritti-doveri cfr. anche S. Fontana, Per una politica dei doveri, Cantagalli, Siena 2006. (11) Bénézet Bujo, “Les droits de l’homme du point de vu de l’Afrique noire. Un pluralisme est-il possible ?”, Notes et Documents, Janvier-Avril 2008, p. 18. Una decina di anni fa l’ex-cancelliere Helmut Schmidt preparò uno studio sui doveri universali dell’uomo, che ricorda l’importanza delle virtù, dei doveri e della responsabilità dei singoli verso la famiglia, le comunità, la società e lo Stato. H. Schmidt (ed.) Allgemeine Erklärung der Menschenpflichten. Ein Vorschlag, München-Zürich 1997. (12) Su questi aspetti cfr. M. A. Glendon, A World Made New. Eleanor Roosevelt and the Universal Declaration of Human Rights, Random House, New York 2001, pp. 276ss. (13) Cito dall’ed. italiana, Dei diritti dell’uomo. Testi raccolti dall’Unesco, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 25s. (14) Cfr. J. L. Chabot, “L’unione europea e i diritti dell’uomo”, La società, n. 1/2001, p. 40. Annesso: Diritti umani e problemi di ‘gender’ Nel dibattito contemporaneo sui diritti umani assume grande rilievo il tema del femminismo, del genere (gender) e dell’orientamento sessuale per i riflessi che tali temi hanno sull’interpretazione dei diritti e su istituti fondamentali quali il matrimonio, la famiglia, la procreazione, l’adozione. Conosciamo le due posizioni femministe più significative: 1) il femminismo della competizione fra uomo e donna secondo cui la donna, per essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell'uomo, e intende gli uomini come nemici da vincere. L’idea di differenza qui perseguita non crede nell'uguaglianza tra uomini e donne, ma esalta le caratteristiche peculiari dell’uno e dell'altra; 2) la questione del gender secondo cui la base biologica è pienamente disponibile. In questa posizione la differenza corporeo-sessuale, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è ritenuta primaria (1). Soffermiamoci sulla seconda questione. Fa parte dell’antropologia cristiana (e non solo di questa, naturalmente) il fatto della differenza sessuale. Nel Genesi leggiamo: “maschio e femmina li creò” (1, 27). Non si tratta solo di una singolarità della Bibbia: la constatazione della differenza sessuale è alla base di ogni tradizione in merito e si prolunga negli istituti del matrimonio e della parentela. Da diversi decenni alcune correnti culturali intendono negare proprio tale presupposto, sostenendo che la differenza sessuale non si fondi su una realtà biologica ma dipenda dalla cultura e dall’educazione ricevuta, di modo che i confini tra uomo e donna non sono naturali ma mobili e culturali. In tal modo la teoria del gender può essere impiegata per favorire il punto di vista delle donne: non si è donne, ma si sceglie di esserlo, e ciò può diventare un’agenda politica per il futuro. Adottare una prospettiva di genere significa distinguere tra quello che è naturale e biologico e quello che è costruito culturalmente e socialmente, in modo da contrattare continuamente il confine tra il culturale-modificabile e il naturale-immodificabile, e staccare l’identità sessuale dalla realtà biologica e genetica. L’identità sessuale diventa non una realtà stabile biologicamente fondata ma una scelta libera, mobile e mutabile anche più volte nella vita di una persona. L’adozione di una prospettiva di genere è poi apertamente finalizzata a promuovere la compiuta giustificazione e accettazione della sessualità omosessuale. La teoria del gender, impiegata per minimizzare la differenza biologica tra i due sessi e per pensarli come uguali o indifferenti, intende dissolvere l’idea di identità naturale, di matrimonio e di famiglia, ossia i nodi centrali di ogni antropologia e delle strutture basali dell’essere umano, in nome di una libertà di scelta che è pensata assoluta e capace di oltrepassare ogni limite dato. L’impiego disinvolto del concetto di genere manifesta un chiaro cedimento al relativismo e al contestualismo o culturalismo. Se consideriamo il matrimonio esso non è soltanto o in primo luogo il riconoscimento di un legame affettivo di qualsiasi genere, in cui si esprime una concezione esclusivamente soggettiva del rapporto con l’altro. Lo Stato non è tenuto ad offrire un riconoscimento per questo tipo di rapporto, quando esso fosse eterosessuale ma senza impegni precisi o omosessuale. Nel primo caso non è presente la contropartita di doveri ed impegni sociali, senza di cui la concezione meramente individualistica e soggettivistica dei diritti come crediti o vantaggi da reclamare verso la società non tiene. Nel secondo caso (unione omosessuale) non si può fare ricorso al concetto di famiglia che coprirebbe del tutto nominalisticamente due realtà completamente diverse, e assumerebbe come secondaria e irrilevante la sessuazione. L’istituto matrimoniale e familiare non può essere inteso solo dal punto di vista della vita sentimentale e soggettiva dei cittadini. Il matrimonio quale inizio di una nuova famiglia, è l’alleanza tra un uomo e una donna per il mutuo sostegno e la procreazione della prole nel succedersi delle generazioni. Quale vantaggio ne deriva se da tale determinazione scompaiono i termini di uomo, donna e di prole? Per egualizzare tutto e neutralizzare tutto possiamo chiamare mele le pere in modo da cancellare ogni differenza tra i frutti? La formazione di una famiglia è collegata ad un atto sessuale aperto alla procreazione, che non può accadere nell’unione omosessuale. In breve ordine e diritto non sono concetti opposti alla libertà, ma la sua condizione; anzi, suoi elementi costitutivi. (1) Su questi aspetti vedi la lettera della Congregazione per la Dottrina della fede sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo (luglio 2004).
La tradizione dei diritti dell'uomo