Vittorio Possenti

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Fede e società postsecolare

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Fede e società postsecolare, La società, n. 3, 2009

I Forum internazionale delle Università su: Vangelo, cultura e culture, Roma 12-5 marzo 2009

Sessione plenaria: Istanze critiche e problematiche nella cultura contemporanea
Il nuovo ruolo pubblico della fede nell’epoca postsecolare

Vittorio Possenti (Università di Venezia, Pontificia Accademia delle Scienze Sociali)

1. La cultura e l’università stanno vivendo il tempo della ‘crisi della modernità’ e del paradigma politico dei moderni, che è nostro compito studiare e superare, cercando la prospettiva di un nuovo umanesimo non più antropocentrico e votato al solo regnum hominis. Questo umanesimo separato ha lungamente inteso la religione come un fatto privato, una pratica individualistica a carattere opzionale rinchiusa nell’intimità della coscienza. Ma qualcosa comincia a mutare ed è di primaria importanza intendere quanto va succedendo. Accade che il paradigma politico dei moderni, da Hobbes in avanti, mirato ad assicurare l’ordine e basato sulla forza/potere al posto della giustizia, appare da tempo in crisi e va ampiamente ripensato per riprendere in mano la giustizia e il diritto naturale come ordine dell’essere.
Con l’obsolescenza di tale paradigma politico diventa prioritario verificare se il reinserimento della religione nella sfera pubblica possa rilanciare una ‘politica ritrovata’ entro il quadro reggente della liberaldemocrazia quale forma politica che riduce al minimo la violenza. In ogni caso la novità degli ultimi decenni per cui le religioni sono tornate a giocare un ruolo nello spazio pubblico in una misura che tempo fa sarebbe stata imprevedibile, merita ogni attenzione. Tutto sembrava cospirare contro la religione: l’urbanizzazione, il mutamento sempre più accelerato degli stili di vita, il consumismo, l’influsso sempre più penetrante dei media, il cambiamento dei rapporti tra generazioni: molte previsioni formulate anche in ambito cristiano indicavano che il processo di secolarizzazione fosse del tutto irreversibile. Sembrava che la città secolare (cfr. Harvey Cox, 1968) fosse dietro l’angolo o celebrasse ormai la sua vittoria. Ma così non è stato, e dobbiamo ancora comprendere bene perché e quali nuove possibilità e rischi si aprono per l’esperienza religiosa, quale nuovo nesso tra religione, cultura/civiltà e politica sia richiesto e quali circolazioni si operino col tema dell’uomo.

2. Nel mondo del XX secolo, in specie la prima parte ma poi anche fino all’incirca agli anni ‘80, le religioni e le tendenze religiose sono state duramente represse in molte parti del mondo (paradigmatico il caso dei totalitarismi), oppure confinate al di fuori della sfera pubblica col fenomeno occidentale della secolarizzazione e del laicismo. Da circa un trentennio la situazione appare mutata: il giudizio secondo cui la civiltà va verso il secolarismo e l’estinzione della religione, non appare più certo. Ciò che sta adesso prendendo forma sotto i nostri occhi è una “deprivatizzazione” della religione. e solo nell’Occidente la religione fatica a riemergere, mentre altrove le tendenze religiose dispongono del potenziale sufficiente a conferire una diversa forma alla cultura e alla vita civile, a un livello che forse non ha l’eguale dall’epoca del sorgere del moderno nazionalismo.
La crisi della modernità riapre la questione dell’origine delle civiltà, ed un contesto capace di avvertire la nuova incidenza delle religioni quali grembo delle grandi civiltà. G. B. Vico osservava nella Scienza Nuova: “Laonde, perdendosi la religione nei popoli, nulla resta per loro per vivere in società; né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo… Quindi veda Bayle se possano esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di Dio… Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose” (1). Si tratta di espressioni in cui Vico manifesta l’origine religiosa dei popoli e delle civiltà. Su un cammino affine si muovono oggi  vari autori fra cui S. Huntington col notissimo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, e il teologo Ratzinger, per il quale “in tutte le culture storiche conosciute la religione è elemento essenziale della cultura, anzi è il suo centro determinante, è ciò che definisce la compagine dei valori e dunque l’ordine interno del sistema della cultura” (2).
Il processo crescente della secolarizzazione era tra le altre cose nutrito dall’abbandono del problema teologico-politico.  In Europa tale problema è quasi scomparso dalla considerazione della filosofia con la fine della seconda guerra mondiale sino ad un recentissimo passato. La sua liquidazione avvenne non per via teologica (che anzi nacquero varie teologie politiche diversamente influenti), ma secolare in quanto si ritenne che teologia e religione fossero prossime a scomparire, o almeno la loro valenza pubblica, e che ciò comportasse la fine moderna di ogni teologia politica. Forse si considerò che la grande separazione avvenuta nel XVI e XVII secolo tra teologia e filosofia esonerasse la filosofia politica dall’approfondire il tema teologico-politico, o anche che per un pensiero secolare sarebbe stato umiliante dover ancora prestare attenzione a istanze teologiche.

La religione nelle democrazie liberali attuali

3. Mi volgo ora verso l’ambito occidentale e le democrazie liberali. In America la presenza pubblica della religione rimane viva, come molte ricerche hanno confermato, mentre in Europa è precaria e fortemente sfidata dal secolarismo. Quello che sembrava l’eccezione americana  viene da qualche tempo ribaltata come eccezione europea occidentale: noi europei saremmo il caso raro di secolarismo entro un mondo che si volge alla religione. Il suo necessario rilancio non implica il superamento della differenza tra religione e politica, ma una diversa articolazione del loro nesso, che il paradigma liberale non sembra in grado di fornire.
Per le attuali democrazie liberali le varie religioni sono equivalenti e la sfera pubblica deve assumere nei loro confronti una posizione di indifferenza e neutralità; ciò vale anche per le religioni universalistiche alle quali si domanda di essere tali solo nel privato, condannandole alla contraddizione. Tali democrazie abbandonano anche lo schema hegeliano in cui la religione è incorporata e captata nell’evoluzione della società e inverata entro lo Stato; in vari casi (in Europa) esse si allontanano anche dallo schema americano, dove la religione è fondamento indipendente e individuale della società, pur rimanendo staccata dal potere politico. Ma il mutamento in corso con la ripresa di movimenti religiosi non più rassegnati ad un’ulteriore privatizzazione della religione, rilancia un problema decisivo anche per il pensiero secolare, dove sorge un sentimento di sorpresa verso la rinascita religiosa che talora ha dato origine a reazioni di malcelata diffidenza.  A dispetto di tali reazioni  emergono le condizioni per una riapertura postmoderna del problema, poiché l’ateismo militante è in difficoltà, nonostante alcuni attacchi recenti al teismo e alle religioni provenienti da correnti evoluzionistiche e scientiste.
Ritengo che stiamo muovendo verso una società postsecolare in cui il nesso tra religione, cultura e politica sarà di tipo postliberale (3). Dobbiamo preliminarmente intenderci sui termini. Per società postsecolare intendo la chiusura dell’epoca della neutralizzazione pubblica della religione. Non intendo dunque per postsecolare la fine della laicità o della secolarizzazione delle istituzioni politiche, e neppure la mera constatazione che la religione torna nel pubblico, ma la costruzione di una nuova legittimità per quest’ultimo esito. Importanti autori del liberalismo tardo novecentesco come Rawls ed Habermas hanno avviato un ripensamento in qualche modo postliberale (ma certo non antiliberale) del nesso religione-politica. Simpatizzo per il secondo per quanto riguarda l’individuazione della crisi spirituale in corso (rischi di autodisfattismo della ragione, domande incalzanti sul futuro della natura umana, difficoltà nella giunzione tra etica pubblica e diritto positivo) (4), forse meno per quanto concerne le vie d’uscita, eccessivamente fiduciose di trovare un’etica pubblica procedurale e un diritto positivo di pari taglia che consentano la soluzione del problema, sulla scorta di una pregiudiziale postmetafisica e fallibilistica.

4. Passo al termine ‘postliberale’ Nella prospettiva qui perseguita esso è sostanziato da tre nuclei: i diritti di libertà non hanno sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; infine più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo. Oltre ad essere vero che la libertà non è tale fine ultimo, storicamente emerge che il progetto incompiuto della modernità è la giustizia più della libertà. Per proseguire in senso integro la ‘storia della libertà’ non possiamo più guardare quasi solo ad essa. Sosterrò invece che la politica postmoderna dovrebbe risultare centrata sul ‘principio-persona’ invece che sul ‘principio libertà’ e che il primo è più fondamentale e primario del secondo.
Nel suggerire questo cammino non intendo certo né dissolvere l’alleanza tra religione e spirito di libertà che portava Tocqueville a sostenere il principio secondo cui “la libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti”(5), né trascurare l’importanza della libertà religiosa, così precaria in non poche parti del mondo. L’intento è di valutare l’appropriatezza del far centro sulla sola libertà come massimo problema politico. Quando ciò accade si producono nella sfera pubblica crescenti difficoltà a generare serietà morale, solidarietà, senso del bene comune, che non sorgono dal negoziare semplicemente libertà e interessi reciproci. La sfera pubblica non può fiorire se si fonda solo sul contratto e la ricerca esclusiva dell’interesse individuale, ma se esistono lealtà, valori, interesse per il bene comune che ricarichino il dialogo e l’azione. In tal modo i cittadini, evitando di esigere sempre e comunque diritti, sono inclinati a riflettere su se stessi, sull’apporto da offrire e la comunicazione da instaurare.
Il centro ‘filosofico’ del mio argomento consiste nell’asserto secondo cui nella vita sociale e politica autonomia e libertà sono certo valori alti ma non tali da costituirne il fine. In certo modo, l’iniziatore filosofico della svolta che ravvisa nella libertà lo scopo della politica fu Spinoza, che scrisse: “finis rei publicae libertas est”. Prima di lui, Tommaso d’Aquino determinò con maggiore verità lo scopo della res publica, individuandolo nel bene comune, che naturalmente non si può ricondurre solo alla libertà. Questa rimane imprescindibile quale condizione di possibilità per pervenire al bene comune in una maniera che non sia prefissata dall’alto e che includa il riconoscimento dell’altro; non può però sensatamente essere posta come lo scopo della politica neppure dalla scuola liberale, semmai da quella anarchica. Forse la formula di Spinoza potrebbe trovare spiegazione nelle condizioni dell’epoca in cui venne vergata, tuttavia rimane incompiuta e parziale. O la considerazione del bene comune entra in gioco sin dall’inizio, oppure è assai probabile che venga dimenticata o positivamente emarginata.

Il dialogo tra Habermas e Ratzinger sui fondamenti prepolitici dello Stato liberale

5. I problemi concernenti le basi dello Stato liberale, la presenza pubblica della religione dopo l’epoca della privatizzazione illuministica, e il reciproco apprendimento tra fede e ragione sono stati al centro del dialogo tra J. Habermas e J. Ratzinger nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera. Alle posizioni del primo farò ora riferimento, osservando che esse hanno avuto sviluppi successivi.
A Monaco Habermas si rivolge al diritto positivo e all’etica pubblica di uno Stato liberale, inteso come una società culturalmente o ideologicamente pluralistica. Sul piano cognitivo egli domanda se, dopo la completa positivizzazione del diritto, sia ancora possibile per lo Stato una giustificazione secolare, postmetafisica e non religiosa; e aggiunge la questione se il chiaro pluralismo ideologico possa venire stabilizzato “tramite un consenso di fondo, preferibilmente formalizzato” e procedurale. Osserva inoltre che “gli ordinamenti liberali possono fare affidamento solo sulla solidarietà dei loro cittadini”, cercando di produrre motivazioni che li inducano a non preoccuparsi solo del loro bene particolare, con la possibile conseguenza che “le risorse di tali ordinamenti potrebbero del tutto inaridirsi in seguito a una secolarizzazione “destabilizzante” (entgleisend) della società” (6).
Per elaborare la sua posizione, egli prende le mosse dalla nota questione sollevata da Böckenförde quarant’anni fa, secondo cui lo Stato liberale secolarizzato riposa su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire (7). Habermas ritiene che il liberalismo politico, da lui difeso nella forma specifica di un repubblicanesimo di tipo kantiano, «si comprenda come una giustificazione non religiosa e postmetafisica dei fondamenti normativi dello Stato costituzionale democratico. Questa teoria si inserisce nella tradizione di un diritto razionale (Vernunftrecht) che rinuncia a forti assunti, di tipo cosmologico o di tipo salvifico, quali sono invece propri delle dottrine classiche o religiose del diritto naturale […] I fondamenti che legittimano il potere di uno Stato ideologicamente neutrale trovano, in conclusione, la propria origine nelle correnti profane della filosofia del Seicento e del Settecento” (8).
L’elaborazione habermasiana della domanda di Böckenförde propende dunque per una risposta negativa: lo Stato secolarizzato non sembra necessitare di appoggi esterni per mantenersi, né ha bisogno di ricorrere a tradizioni diverse dalla propria per ottenere la lealtà dei cittadini e favorire forme di solidarietà, sebbene la diagnosi di una secolarizzazione capace di inaridire le sorgenti sociali non sia respinta. Dal lato dei presupposti filosofici quest’assunto, dinanzi alle crisi aperte dal contestualismo o dal decisionismo del positivismo giuridico, ammette la possibilità di una fondazione postkantiana dei principi liberali e costituzionali che ricorra ad assunti deboli e a una ragione debole, ma non definitivamente scettica. Questo sembra uno dei due criteri metodici di Habermas, che lo conduce a sostenere la produzione democratica del diritto, capace di garantire i fondamentali diritti politici e di libertà (9)
La ragione postmoderna schizzata da Habermas mantiene ferma la differenza tra discorso secolare, che avanza la pretesa d’essere accessibile in generale, e discorso religioso, legato alle verità di fede. Questa delimitazione non significa che la filosofia o la ragione pretendano di determinare «cosa sia vero e cosa sia falso nel contenuto delle tradizioni religiose. Il rispetto che va di pari passo con questa astensione di giudizio, si fonda sull’attenzione nei confronti di persone e modi di vita che attingono la loro integrità e la loro autenticità in primo luogo da convinzioni religiose. Ma il rispetto non è tutto, la filosofia ha motivi per relazionarsi alle tradizioni religiose con una disponibilità ad apprendere» (10). In sostanza il linguaggio religioso custodisce ragioni ed evoca donazioni di senso che il discorso pubblico nello Stato liberale non può ignorare. Il filosofo tedesco suggerisce una reciproca apertura tra fede e ragione secolare «in cui entrambe le parti sono chiamate ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa» (11). In queste espressioni avviene il superamento della critica illuministica e secolaristica della religione.

6. Successivamente Habermas ha ripreso il tema nello scritto “La religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’’uso pubblico della ragione’ da parte dei cittadini credenti e laicizzati” (Tra scienza e fede, Laterza 2006), cercando di mediare tra la posizione di Rawls e quella dei suoi oppositori. Secondo Habermas occorre che i cittadini giustifichino gli uni agli altri le loro scelte etico-politiche; egli ritiene che esistano legittime obiezioni ad un concetto laicistico delle democrazia e dello stato di diritto. Una di queste è che non ci si può attendere che tutti i credenti motivino le loro scelte etico-politiche indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, perché questa richiesta porrebbe oneri eccessivi e ingiustificati sulle spalle dei cittadini credenti, creando “un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre” ai cittadini credenti. “Lo stato liberale è infatti interessato all’ammissione di voci religiose nella sfera pubblica politica, come pure alla partecipazione politica delle organizzazioni religiose. Esso non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, perché non può sapere se in caso contrario la società laica non si privi di importanti risorse di creazione del senso” (p. 34). Insomma i cittadini laici possono imparare qualcosa dai contributi religiosi, e questo ripartisce meglio gli oneri cognitivi. Si torna dunque alla necessità di processi complementari di apprendimento.


Il compito pubblico della religione e il problema di Dio

7. Vi è bisogno di una ‘laicità positiva’ che imbeva di comportamenti semplici e virtuosi il costume e l’attività civile e politica, in specie in rapporto ai principali temi legati alla dignità della persona, alla vita, all’educazione. In tal senso inadeguate sono le due soluzioni opposte che concernono l’influsso della fede nella vita pubblica. La prima legge la fede riduttivamente come un collante, una fede come religione civile di una società in cui i legami essenziali si allentano; la seconda vede la fede come testimonianza ecclesiale finalizzata alla sola proclamazione della Parola di Dio, senza incidenza sul costume, la cultura,  l’educazione. La fede non è qualcosa di estraneo alla vita e alla polis, ma è fonte di energia motivante, di integrità e di verità sull’uomo. Non è saggio privare la società di tale apporto.
In tutto ciò ne va del compito del cristianesimo, che non è in senso proprio una “religione del libro”: è la religione dell’Incarnazione e dell'Eucaristia. Il profondo realismo della fede è centrato sull’Incarnazione del Verbo, è l’incontro con la persona del Cristo stesso e non solo con asserti teoretici che pur rimangono importanti per trasmettere la fede. Ogni realizzazione cristiana deve seguire la legge dell’Incarnazione secondo la regola dell’unità dei diversi, che trova la sua stella polare nelle formule di Calcedonia: esse presentano il Verbo incarnato come unione della natura umana e della persona divina “inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter”; senza separazione né confusione umano e divino sono uniti. Il terrestre rimane terrestre e il divino divino, ma il secondo assume il primo e lo eleva (12). Se tutto l’agire di Dio verso l’uomo tende all’incarnazione ossia alla ‘corporeizzazione’, altrettanto dovrà essere proprio del cristiano: tout l’Evangile dans toute la vie. In rapporto all’Incarnazione del Verbo si impone come compito primario praticare la circolarità tra Rivelazione e persona, che trova il suo sigillo di luce nel fondamentale passo di GS: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo” (n. 22).

8. Nel ri-prendere il compito pubblico della religione occorre considerare non solo la religione, ma convocare anche il problema di Dio che sta in immediata connessione con esso. Secondo il significato fondamentale deposto nel termine e tradizionalmente elaborato, la religione è il luogo del rapporto dell’uomo con Dio, non un qualsiasi simbolo di interessi o scopi ultimi. Religione è re-ligio, qualcosa che lega essenzialmente infinito e finito, trascendenza e uomo, l’indicazione di un nesso per cui l’uomo appare come un essere volto all’insù. In questi caratteri si radicano le potenzialità liberanti della religione: la sua capacità di riconciliazione; quella di opporsi alla reificazione; l’importanza attribuita alla razionalità rispetto al valore nei confronti di quella puramente strategica volta al potere; l’elemento dialogico e del cuore; la capacità di produrre nuova prassi.
In merito le indagini sociologiche prestano servizio in maniera limitata in quanto non possono andar oltre l’empirico e lo statistico. Il nesso religione-politica-spazio pubblico non compie significativi passi avanti se le religioni sono intese solo come sorgenti etiche motivanti, o derubricate a luogo in cui si svolge il rito e si fa avanti il sacro di qualche tipo, lasciando indeciso o negando che esse possano essere lo spazio fondamentale in cui accade un qualche legame tra uomo e Dio. Sacro e rito/liturgia rappresentano indubbiamente elementi fondamentali e perenni del momento religioso, eppure non sono determinanti in ultima istanza. Appena si affronti un lavoro di scavo e non ci si accontenti di luoghi comuni, la sola leva sociologica appare inidonea a cogliere la specificità del fenomeno religioso, la forza del teologale, lo spazio della preghiera, l’istanza veritativa.
Mi soffermo su quest’ultima. La soluzione prevalente dà per scontato che la questione della verità sia esterna alle religioni, che il termine religio vera non significhi nulla, e che la verità del messaggio sia scarsamente rilevante rispetto all’esperienza del sacro e al rito. La neutralizzazione pubblica del tema della verità appartiene alla soluzione privatizzante, che considera la prassi del rito e lo spazio del sacro superiori al tema del vero. Lo spostamento del cristianesimo dall’ortodossia del vero all’ortoprassi del rito o alla difficilmente definibile area del sacro rappresenta una sua sottile estenuazione. Risolvere in senso scettico il tema del nesso tra verità e religione significa che le religioni vengono a far parte di un ambito ‘dialettico’, cui appartengono anche le concezioni del bene, in cui l’assunto-guida è che la ragione umana non è in grado di districarsi per pervenire ad un esito stabile, optando motivatamente per una prospettiva.

 

Commiato

9. Dobbiamo cogliere le sfide implicite nella nuova situazione, e prepararci a valorizzare le possibilità insite in un quadro inatteso. Siamo preparati per questo? Si tratta di colmare il vuoto morale e antropologico lasciato aperto dalla crisi finale della grandi ideologie del XX secolo, ma anche in misura più ridotta dalle discrasie di un certo liberalismo e liberismo, che non si mostra sensibile al necessario richiamo a giustizia e solidarietà.
Nonostante le difficoltà sollevate dalle forme più severe di secolarismo, forse sta sorgendo una ‘rivoluzione religiosa’: probabilmente siamo in una situazione prerivoluzionaria in rapporto ad un nuovo investimento di significato. Punto essenziale è comprendere la congiuntura storico-spirituale, cogliendo non solo il pur importante ritorno della religione nella sfera pubblica dopo l’epoca del suo confinamento privato, ma pure la speranza di incrementi di senso e di esistenza che possono derivarne nel moto verso una prospettiva umanistica nutrita religiosamente.
Al cuore di tale rivoluzione postsecolare e postantropocentrica rivolta alla città degli uomini sta la passione per la persona e la cura per la vita comune degli uomini (13).



Note

 

(1) G. Vico,  Scienza nuova, Ricciardi, Napoli 1953, nn. 1109 e 1110.
(2) J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 61.
(3) Ricorrendo al termine postliberale riprendo il filo di un discorso iniziato vent’anni fa, seppure con un lessico che ancora non ricorreva al termine postliberale, con opere quali: Tra secolarizzazione e nuova cristianità (1986), Le società liberali al bivio (1991), Religione e vita civile (2001), segnato dall’attenzione al tema teologico-politico.
(4) Tali temi sono emersi  nei volumi di L’inclusione dell’altro, Feltrinelli 1999, Il futuro della natura umana, Einaudi 2002. Per dirla in breve, io assegno al termine ‘postsecolare’ un significato più intenso di quello cui ricorre Habermas in Scienza e fede: “L’espressione ‘postsecolare’ si limita a tributare alle comunità religiose il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale che esse recano alla riproduzione di motivazioni e atteggiamenti desiderabili” (p. 16). In particolare mi allontano dall’identità habermasiana tra postsecolare e postmetafisico: “La consapevolezza laica di vivere in una società postsecolare si esprime sul piano filosofico in forma di un pensiero postmetafisico” (p. 24).
(5) A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992,  p. 55.
(6) J. Habermas “I fondamenti morali e prepolitici dello Stato liberale”, in «Humanitas», n. 2, 2004,  p. 239.
(7) E. W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006, p. 68.
(8) J. Habermas,  “I fondamenti morali e prepolitici dello Stato liberale”, p. 240.
(9) Ivi, p. 241.
(10) Ivi,  p. 247.
(11) J. Habermas, “Fede e sapere”, in Il futuro della natura umana, p. 107.
(12) Il cristianesimo non è “diabolico” ma “simbolico”. Non è diabolico (da diaballo = separo, disgiungo, disunisco), perché tiene insieme  umano e divino, pure nella loro infinita differenza qualitativa; dunque è simbolico (da sunballo = prendo insieme, unisco).
(13) Su questi aspetti cfr. V. Possenti, L’uomo postmoderno. Tecnica, religione, politica, Marietti, Milano  2009.